La città bruciava.
Le strette viuzze che conducevano al fossato e alla prima terrazza vomitavano fumo e folate di aria calda, le fiamme divoravano i tetti serrati l'uno all'altro, lambendo le mura del castello. Dalla porta occidentale, quella che dava sul porto, si levavano urla, gli echi di una lotta accanita, i colpi sordi di un ariete che scuoteva le mura.
La città era stata colta di sorpresa dagli aggressori, che avevano sfondato la barricata difesa da un pugno di soldati, da abitanti armati di alabarde e dai balestrieri della corporazione. Cavalli dalle nere gualdrappe volavano sopra lo sbarramento come spettri, lame vivide e scintillanti seminavano morte tra i difensori in fuga.
Ciri sentì il cavaliere che la portava in arcione spronare bruscamente il cavallo. Udì il suo grido. «Reggiti», urlava. «Reggiti!»
Altri cavalieri coi colori di Cintra li sorpassarono di gran carriera e andarono incontro agli uomini di Nilfgaard. Ciri vide per un istante la scena con la coda dell'occhio, un frenetico turbinio di mantelli azzurro-dorati e neri fra lo stridere dell'acciaio, il fragore delle lame sugli scudi, i nitriti dei cavalli...
Un urlo. No, non un urlo.
Un grido: «Reggiti!»
Paura. Ogni scossa, ogni strattone, ogni balzo del cavallo lacera le mani serrate sulle redini. Le gambe spasmodicamente contratte non trovano appoggio, gli occhi lacrimano per il fumo. Il braccio che la tiene le fa male, la soffoca, la strangola, le schiaccia le costole. Non lontano si levano urla quali finora non ha mai sentito. Cosa si deve fare a un uomo perché urli così?
Paura. Una paura che blocca, paralizza, opprime. Di nuovo lo stridere del ferro, gli sbuffi dei cavalli. Le case intorno ballano, d'un tratto le finestre che rigurgitano fuoco sono là dove fino a un attimo prima c'era solo una stradina fangosa ingombra di cadaveri, ostruita dagli oggetti abbandonati dai fuggitivi. All'improvviso il cavaliere alle spalle di Ciri è assalito da una strana tosse roca. Sulle mani aggrappate alle redini schizza del sangue. Un urlo. Il sibilo di una
freccia.
Una caduta, una scossa, un colpo doloroso contro l'armatura. Accanto a Ciri risuona uno scalpiccio di zoccoli, sopra la sua testa balenano il ventre di un cavallo e un sottopancia strappato, il ventre di un altro cavallo, una nera gualdrappa svolazzante. Gemiti simili a quelli emessi da un boscaiolo che spacchi la legna. Qui però non si tratta di legna, ma di ferro contro ferro. Un grido soffocato e sordo. Vicino a lei, qualcosa di grande e nero cade con un tonfo nel fango, tra schizzi di sangue. Il piede nell'armatura trema, si agita, ara la terra con l'enorme sperone.
Uno strattone. Una forza la solleva in aria, la issa sull'arcione di una sella. «Reggiti!» Di nuovo una corsa piena di scosse, un galoppo folle. Mani e piedi cercano disperatamente un appoggio. Il cavallo s'impenna. «Reggiti!»
Nessun appoggio... No... No... Solo sangue.
Il cavallo cade. Impossibile saltare giù, impossibile divincolarsi, liberarsi dalla stretta delle braccia protette dal giaco. Impossibile sfuggire al sangue che le cola sulla testa, sulla nuca.
Una scossa, un tonfo nel fango, una violenta caduta. Ora tutto è spaventosamente immobile dopo la cavalcata selvaggia. Gli sbuffi penetranti e il nitrito del cavallo che cerca di sollevare la groppa. Il rimbombo dei ferri, il balenio dei garretti e degli zoccoli. Mantelli e gualdrappe neri. Urla.
La stradina è invasa dal fuoco, da una rossa cortina mugghiante di fuoco. Sullo sfondo si staglia un cavaliere, è gigantesco, sembra torreggiare sui tetti in fiamme. Il cavallo coperto da una gualdrappa nera saltella, scrolla la testa, nitrisce.
Il cavaliere la guarda. Ciri vede scintillare i suoi occhi nella fessura del grande elmo ornato dalle ali di un uccello rapace. Vede riflettersi l'incendio sulla larga lama della spada nella mano abbassata.
Il cavaliere la guarda. Ciri non può muoversi. Glielo impediscono le braccia inerti del morto, che le stringono la vita. È immobilizzata da qualcosa di pesante e bagnato di sangue, qualcosa che le schiaccia la coscia e la inchioda a terra.
È immobilizzata anche dalla paura. Una paura mostruosa, che le
torce le viscere e la rende sorda al gemito del cavallo ferito, ai rombo dell'incendio, alle urla delle persone che vengono massacrate e al fracasso dei tamburi. L'unica cosa che c'è, che conta, che importa, è la paura. Una paura che ha assunto le sembianze del cavaliere nero dall'elmo ornato di piume, impassibile sullo sfondo della rossa cortina di fiamme impetuose.
Il cavaliere sprona il destriero, le ali del rapace sventolano sull'elmo, l'uccello si alza in volo, all'assalto di una vittima inerme, paralizzata dalla paura. L'uccello - o forse il cavaliere - grida, gracchia in maniera spaventosa, crudele, trionfante. Il cavallo nero, l'armatura nera, il mantello nero svolazzante e, alle loro spalle, il fuoco, un mare di fuoco.
Paura.
L'uccello gracchia. Le ali sventolano, le piume le sferzano il viso. Paura! Aiuto! Perché nessuno mi aiuta? Sono sola, sono piccola e indifesa, non posso muovermi, non riesco neppure a gridare. Perché nessuno viene in mio aiuto?
Ho paura!
Due occhi ardenti nella fessura del grande elmo alato. Il mantello nero ricopre tutto...
«Ciri!»
Si svegliò madida di sudore, rigida, e quel grido, il grido che l'aveva svegliata, continuava a tremare, a vibrare da qualche parte dentro di lei, sotto lo sterno, a bruciarle la gola secca. Le dolevano le mani serrate sulla coperta da cavallo, così come le spalle...
«Ciri. Calmati.»
Era notte, una notte scura e ventosa, piena dei fruscii monotoni e melodiosi delle chiome dei pini, degli scricchiolii dei tronchi. Non c'erano più l'incendio e il grido, c'era soltanto quella ninnananna di fruscii. Accanto a lei, il fuoco del bivacco palpitava di luce e calore, le fiamme scintillavano sulle fibbie dei finimenti, si riflettevano vermiglie sull'impugnatura e sul fodero di una spada appoggiata a una sella adagiata a terra. Non c'era nessun altro fuoco, nessun altro ferro. La mano che le sfiorava la guancia odorava di cuoio e di cenere. Non di sangue.
«Geralt...»
«Era solo un sogno. Un brutto sogno.»
Ciri fu scossa da un violento tremito che le provocò spasmi alle braccia e alle gambe.
Un sogno. Solo un sogno...
Il fuoco si è ormai affievolito, i ciocchi di betulla sono rossi e trasparenti, crepitano, ne erompe una fiamma azzurra. La fiamma illumina i capelli bianchi e il profilo spigoloso dell'uomo che la avvolge nella coperta da cavallo e in un pellicciotto di montone. «Geralt, io...»
«Sono qui accanto a te. Dormi, Ciri. Devi riposare. Ci aspetta ancora un lungo cammino.»
Sento una musica, pensò Ciri all'improvviso. In questo fruscio... c'è una musica. Un liuto. E voci. La principessa di Cintra. La bambina del destino... La bambina dal Sangue Antico, il Sangue degli Elfi. Geralt di Rivia, il Lupo Bianco, e il suo destino. No, no, è una leggenda. L'invenzione di un poeta. Lei è morta. È stata uccisa nelle strade della città mentre scappava...
Reggiti... Reggiti...
«Geralt?»
«Sì, Ciri?»
«Cosa mi ha fatto? Che è successo allora? Che cosa... mi ha fatto?»
«Chi?»
«Il cavaliere... Il cavaliere nero dall'elmo piumato... Non ricordo nulla... Gridava... e mi guardava. Non ricordo cos'è successo. Solo che avevo paura... Una paura tremenda...»
L'uomo si chinò, e la luce del fuoco sfavillò nei suoi occhi. Erano occhi strani. Molto strani. Una volta Ciri ne aveva paura, non amava guardarli. Ma da allora era passato del tempo. Tanto tempo.
«Non ricordo nulla... Il cavaliere nero...» sussurrò cercando la sua mano, dura e ruvida come legno grezzo.
«Era solo un sogno. Dormi tranquilla. Non tornerà più.»
Ciri si era già sentita rassicurare altre volte in passato. Tante, tantissime volte era stata tranquillizzata dopo che le sue stesse urla l'avevano svegliata nel cuore della notte. Ma adesso era diverso. Adesso ci credeva. Perché adesso a calmarla era Geralt di Rivia, il Lupo Bianco. Lo strigo. Il suo destino. Lo strigo Geralt, che l'aveva trovata nel bel mezzo della guerra, della morte e della disperazione, l'aveva presa con sé e aveva promesso che non si sarebbero mai separati.
Si addormentò senza lasciargli la mano.