Ma chi sono i Binbogami? Cosa rappresenta per la tradizione e per la cutlura giapponese il kami della povertà?
Lo Shintoismo, le cui origini si perdono nel lontano periodo Jomon (10000 a.C. – 300 a.C.), costituisce un tutt’uno con la storia e con i miti delle origini del paese del Sol Levante; parla di dei ma non ha una teologia, segue dei riti (centrale è il ruolo delle feste, matsuri, che talvolta si incontrano in alcune storie di manga o anime) ma manca di prescrizioni precise né possiede un clero organizzato. Senza addentrarci in questo caso in un’analisi più dettagliata dell’avvincente mondo della religione nativa del Giappone, ci basta sottolineare qui come il concetto di divinità espresso dallo Shintoismo (letteralmente, “via degli dei”) sia assai distante da quello proprio delle tradizioni occidentali. Semplificando, non si tratta tanto di una concezione politeista contrapposta ad una monoteista, quanto piuttosto di un’idea diversa del “divino”: gli dei shintoisti (kami) sono forze che si trovano in ogni “cosa” del creato animandola (non a caso si può parlare di animismo) secondo una concezione dell’universo né antropocentrica né teocentrica.
I kami nascono dunque come espressione delle forze della natura nel mondo e solo in un lungo processo di raffinamento e contaminazione con altre tradizioni religiose assumono poi caratteristiche antropomorfe; in questa magnifica concezione vitalistica della natura i kami possono essere gli uomini stessi, magari i defunti, ma anche gli alberi, gli animali, una cascata o una montagna. Come in molte antiche religioni anche qui troviamo la “divinità” del Sole, o quella dei mari e delle tempeste, quella della fertilità e quelle della morte, ma in questo caso il divino permea ogni manifestazione insolita della natura o della vita, si tratti di un albero maestoso e solitario o di un tifone, di un’epidemia o di una sventura che conduce alla povertà.