Bradipo ha postato una grande analisi, comunque questo in grassetto è il modo più superficiale di vedere le cose.Il denaro non è solo il denaro in sè ma rappresenta la società ed il sistema illogico che viene spacciato per naturale in cui viviamo. Bisogna un attimo riflettere oltre all'aspetto superficiale , entrare nella semantica profonda per fare una metafora semiotica,perchè ad esempio la frase che hai detto,descrive una cosa che sembra quasi banale e naturale,ma di naturale non c'è niente,è un costrutto sociale ed artificiale che non è giusto a livello assoluto ma che siamo abituati a pensare come tale, essendo molto occidentocentrici, basti pensare alle società come quelle africane che ho citato che si muovono secondo tutt'altri paradigmi ma che vengono banalizzate nell'ottica in cui la visione giusta è la nostra. Senza considerare tutti gli strumenti psicologici e comunicativi che sono stati usati per instillare nella mente dell'uomo credenze apposite alla permanenza stessa di questo sistema, che viene ad assumere il ruolo di verità unica e giusta, con un atteggiamento simile al dogmatismo religioso... tuttavia mi rendo conto che rischio di essere banale o poco chiaro perchè l'argomento è enorme e sezionabile con un infinità di disciplinePersonalmente non riesco a identificare in religione un oggetto materiale come il denaro. Non ci vedo nessuna credenza. Semplicemente il mondo funziona secondo il principio denaro= tenore di vita, mi sembra quantomeno normale che sia il main goal della razza umana :kep88:
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ho usato male le parole ma sono in linea con questo pensieroIl denaro è una religione e, in quanto tale, non è ovviamente materialistica (nel senso che agisce su ben altro livello come tutte le religioni del resto).
Secondo W, Benjamin (copio estratti del pensiero):
Benjamin radicalizza le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo e un “*** minore” che ne perpetua il destino.
“Il capitalismo -scrive Benjamin- è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”[2]. Oggetto di questo rito è la merce, emanazione visibile della astrazione sovrasensibile e spirituale del danaro.
“Questo culto è colpevolizzante-indebitante”. Se il debito è il rapporto sociale che domina e sostituisce ogni altra forma di riconoscimento intersoggettivo tra gli uomini, esso stabilisce immediatamente anche un nesso di colpevolezza
Questa relazione è sottolineata dal termine tedesco Schuld, che significa allo stesso tempo debito e colpa, ed esprime con precisione la morale calvinista del lavoro: chi ha denaro, ed è dunque considerato solvibile, porta in tal modo un segno della Grazia ricevuta, mentre chi resta schiacciato dall’insolvenza e dal fallimento economico mostra di non poter superare lo stato di peccato. “Solvibilità” e redenzione da una parte; debito e colpevolezza dall’altra.
Tuttavia –a lungo termine- nessuno può evitare interamente di entrare nella parte del debitore inadempiente: quanto più procedono i processi di accumulazione e concentrazione del capitale, sempre più vaste masse vengono a trovarsi nella condizione di non poter restituire il danaro ricevuto a credito e gli individui cadono nella percezione reciproca della propria colpa. Durante una crisi economica (negli anni Venti ma anche in quella che ora viviamo) il debito sovrasta come destino a cui è impossibile sfuggire, vero stato di dannazione.
Il frammento di Benjamin illumina una soglia di rottura, liminare e utopica allo stesso tempo, in cui il succedersi delle crisi è così generalizzato e inevitabile che nessuno può interamente sottrarsi all’incombere della Schuld: giunti a questa linea nodale, il *** astratto del capitale domina col suo movimento impersonale ogni vivente, denunciando la sua debitorietà, la sua irredimibilità. L’uomo è allora dominato dalla Cura (Sorge), per il proprio essere insolvente, dal senso della sua mancanza e insufficienza, dall’impossibilità di trovare una “via d’uscita”; questa situazione non è però solo materiale ma diventa il suo abito sociale permanente, la Cura diviene angoscia come condizione eminentemente dotata di uno spirito oggettivo, benché malato: “Le ‘Cure’ nascono nell’angoscia per l’assenza di vie d’uscita che pertiene alla comunità, e non è individuale-materiale”
Questo stadio utopico-distruttivo o terminale del capitalismo, è dominato da una ambiguità paradossale, perché comporta la colpevolizzazione-indebitamento di *** stesso e “il raggiungimento di una condizione di disperazione cosmica in cui proprio ancora si spera…L’estensione della disperazione a condizione religiosa cosmica dalla quale ci si attende la salvezza”(43). Di quale *** stiamo parlando? Di un *** che è divenuto interamente immanente al destino dell’uomo, che non ha più alcuna calvinistica trascendenza, ma si afferma nel centro stesso della storia.
Questa paradossale coincidenza di speranza e disperazione può intendersi in vari modi. Benjamin inizia con l’identificarne tre, in cui tuttavia non si riconosce e che considera significative ma inadeguate soluzioni: quelle offerte da Nietzsche, Marx e Freud
Il salto apocalittico del superuomo non costituisce un “rivolgimento-conversione” (Umkehr) del destino del capitale, ma un “potenziamento” (Steigerung) in apparenza continuo, ma che alla fine esplode in discontinuità”(45).
L’intensificazione estrema della colpa-debito, del movimento e dello sviluppo stesso del capitale, dovrebbe produrre la sua crisi terminale, da cui emergerebbe l’Uomo-***: non un uomo diverso, che abbia estinto le sue cure, ma anzi un soggetto eroico, che ha assunto positivamente e affermativamente il proprio destino tragico, sostiene con decisione la sua colpa. E’ il Superuomo di Nietzsche, ma forse ancor più di Dostoevskij, un Raskolnikov che accetta perfino il delitto come vocazione superiore: “Il superuomo… inizia coscientemente a realizzare la religione capitalista”. Non la liberazione-redenzione dal destino, ma l’intensificazione-accettazione dello stesso, e dunque l’affermazione del capitale come Essere assoluto.
La religione demoniaca del capitale giunge all’autocoscienza dello Spirito, e –come nel Faust di Goethe- le basse arti di Mefistofele si trasfigurano nella volontà imperialista del Mago-Eroe. Secondo Benjamin, questa discontinuità superomistica è un’apparenza o una fantasmagoria e un’immagine di sogno[3], mentre in realtà la struttura dell’indebitamento resta inalterata. Nietzsche propone una soggettività che sembra superare la logica borghese-capitalista, ma in effetti si limita a una immedesimazione col suo spirito profondo.
Ciò vale anche per Marx, per quella parte della sua opera in cui il superamento del capitalismo sembra dipendere dall’incremento del suo stesso sviluppo e dalla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione (come se l’indebitamento generalizzato dovesse produrre –a interesse- il socialismo; un simile spirito riproduce spontaneamente una situazione debitoria tra l’elite capace di interpretare il mutamento e le masse che lo subiscono passivamente);
e vale anche per Freud... soprattutto in Totem e tabù…e più precisamente nel mito dell’orda primigenia…Freud pone all’origine, non solo della religione, ma dell’organizzazione sociale tout court, la colpa originaria (Urschuld) per l’uccisione del padre. Questo è ‘il grande avvenimento da cui è iniziata la civilizzazione e che da allora non ha cessato di tormentare l’umanità’.
Il superuomo (Nietzsche), l’Uomo Nuovo (Marx), L’Io adulto (Freud), più che superare la logica debitoria, la sublimano in una assunzione immedesimante, che -nella terminologia del Passagenwerk- può essere definita come identificazione e interiorizzazione dell’essenza del credito. Volontà di potenza disperata, determinismo delle forze produttive, ribellione nevrotica degli impulsi inconsci, confermano –invece che sospendere- la percezione del mio essere in debito e in colpa.
quelle tre forme soggettive il *** nascosto, o finale, o in maturazione, della religione capitalista, significa in realtà trasfigurarlo in apparenza e fantasmagoria: perché il vero *** di questo contesto resta il danaro e la sua logica creditizia-debitoria, che non viene scalfita.
Il denaro –anche per Marx- sembra richiedere un vero e proprio “culto” permanente e continuo[10], tanto che nel cap. 27 del primo libro del Capitale si configura un rapporto strutturale di ordini simbolici, fra la trinità cristiana e quella del capitale.
tanto che nel cap. 27 del primo libro del Capitale si configura un rapporto strutturale di ordini simbolici, fra la trinità cristiana e quella del capitale. Non è una formulazione ironica e tanto meno una battuta blasfema. Categorie teologiche –dis-tolte dal loro contesto originario ma non distrutte e cancellate dalla secolarizzazione- si sfigurano in fasi del movimento del capitale: così che la fede nel suo sviluppo e la sua creazione di ricchezza hanno buon gioco a occupare le primitive caselle simboliche della Grazia e della Redenzione, sostituendole nell’animo dei credenti, ma conservandone intatto il potenziale affettivo, emozionale, psichico.
Così il danaro è simile e insieme dissimile dall’immagine del *** cristiano: non è trascendente e pure è soprasensibile nel pieno e nel mezzo dell’immanenza. E’ forse questo paradosso a suggerire a Marx il paragone con l’alchimia, intesa come il rovesciamento simmetrico, ma non come la cancellazione dello spirito cristiano: “Tutto si può vendere o acquistare. La circolazione diviene la grande storta sociale dove tutto affluisce per uscirne di nuovo come cristallo di danaro. Nulla resiste a questa alchimia, neppure le ossa dei santi…”[11]. In effetti il capitale si appropria del patrimonio culturale di tutto il passato dell’umanità, reinterpretando dis-torcendo a sua giustificazione ogni simbolo e significato.
II Faust di Goethe[18] è una quasi inesauribile riserva di allegorie e simulacri, che rinviano alla divinità del danaro, alla magia demonica del credito, alla Cura e all’imperialismo finanziario. Se il I Faust descrive lo Streben, lo spirito soggettivo del nascente eroe borghese capitalista (e ne smaschera anche il posticcio romanticismo), la seconda parte dell’opera si disinteressa ormai della psicologia dei personaggi e procede spedita a descrivere lo spirito oggettivo del capitale e le sue apparenze. Goethe intuisce che il personaggio, l’individuo, diviene secondario e superfluo di fronte al procedere della gigantesca macchina allegorico-fantasmagorica, dinanzi a cui non c’è più bisogno di alcuna interiorità.
Nell’atto primo del II Faust, una progressione di fantasmi porta alla rivelazione-svelamento del danaro come ultima divinità. L’Impero si trova in una situazione di crisi economica così grave da sembrare irreversibile e preludere alla sua disgregazione: “L’Impero, quant’è grande, sembra un incubo, dove/l’informe genera l’informe,/lecitamente l’illecito comanda/e di errore tutto un mondo si dispiega”(443).
L’indebitamento generale, che avviene nella forma dell’usura bancaria, è talmente diffuso da essere insostenibile perfino per la Corte e l’élite dominante: “E a me tocca pagare e far tutti contenti:/con me l’Ebreo non farà complimenti,/lui anticipa versamenti/che un anno consumano prima dell’altro”(447). E’ come se nell’indebitamento scatenato gli anni si accorciassero fino a contrarsi, consumandosi con una velocità inusuale e imprevedibile: ogni attimo è sovrastato e dominato dall’imminente scadenza, sempre uguale presente di ciò che è dovuto. Ogni passato confluisce nel debito dell’ora, ogni presente vincola il futuro al debito contratto. Costituzione debitoria del tempo!
Faust e Mefistofele, al servizio dell’Imperatore, dovrebbero porre rimedio alla violenza e al caos che incombono: la prima soluzione offerta è il passaggio dalla tesaurizzazione alla circolazione. Grazie alla magia di Mefistofele, si tratta di rimettere in movimento tutto l’oro e i tesori sepolti senza frutto sotto la terra, trasformarli da beni immobili inattivi in capitale circolante e investito. Il luogo dove si trova l’oro è del resto sotterraneo e ctonio, e per trovarlo occorre abbandonare le regioni della vita organica e legarsi alla morte: “Laggiù c’è il morto; c’è là il tesoro!”(457). In questa sorta di alchimia invertita e rovesciata, la potenza spirituale si demonizza e si concretizza nel metallo prezioso, si condensa in una materia, che gli dèi onorano e celebrano.
Il possesso dell’oro, scavato nelle miniere e sottratto a chi lo possedeva in forma di tesoro, come bene immobile, è in effetti un momento importante dell’accumulazione originaria del capitale e della sua espansione coloniale dopo la scoperta delle Americhe. A preparare l’introduzione della moneta da parte dei due demonici compari, si dispiega fastoso e iridescente il mondo carnevalesco delle merci e della Moda. La festa nell’ Ampia sala è in, prima che qualsiasi altra cosa, una sfilata in cui si dichiara e si annuncia il trionfo della Moda, fin dal primo gruppo allegorico, quello delle Giardiniere, che celebra così la propria acconciatura o cappellino: “Sono ritagli colorati/messi in giusta simmetria:/ogni parte, in sé, è risibile/ma l’insieme piacerà…/perché in donna è la natura/molto prossima ad un’arte”(465).
L’Araldo è l’imbonitore che presiede all’esposizione: “Venditrici e merci meritano/che si faccia cerchio intorno…”(466), le corone e le ghirlande di fiori artificialmente prodotti parlano esse stesse, come se l’anima della merce acquisisse il dono della parola: “Inconsueti alla natura/è la moda che li crea”(467), frase che già sembra un motto esposto in una vetrina a rendere appetibile il cartellino del prezzo. Segue una lunghissima sfilata di merci e allegorie antichiste, che riassumono l’intero passato culturale, culminando in una sorta di Trionfo di Pluto, che è allo stesso tempo la versione grottesca e profana di un mistero dionisiaco.
Perché tutto questo funzioni occorre però l’ultimo atto di mefistofelica magia e cioè la creazione del danaro e del suo sistema creditizio: “Tutti i conti son saldati/le grinfie degli strozzini ammansite…udite dunque la fatidica carta/che ha tramutato ogni dolore in gioia”(532-533). E’ la nuova legge dell’Impero: “Fermare quei fogli è impossibile./Si sono dispersi in un lampo./Le banche stanno sempre aperte:/ là te lo onorano ogni biglietto/-certo, con uno sconto- in oro e argento”(537); “Ma spiriti degni di guardare in profondo confidano/illimitatamente in quel che è senza limiti”(539). Solo che a un certo punto la catena dell’indebitamento porta alla liquefazione della sua base aurea, all’eccesso del segno sul corrispettivo metallico, e a una crisi ancor più devastante di quella iniziale.
La “magia” si conclude nella guerra e nella necessità dell’espansione coloniale a cui si dedica infine il Faust-imprenditore: ma il suo successo è devastato da quella stessa frenetica inquietudine e dal deprimente spleen, che caratterizzano la Cura, ricordata da Benjamin. Prima della fine appaiono a Faust le quattro donne grigie, le spettrali annunciatrici di una crisi irrimediabile: Mancanza, Insolvenza, Distretta, Cura, e infine la più cupa sorella, la Morte.
Nell’aria “densa di fantasmi”, domina la Cura: “Sotto parvenza mutevole/la mia potenza è feroce: “Quando ho qualcuno in mio potere/il mondo gli diventa inutile./Su lui cala buio eterno/sole non si alza né tramonta./Ha perfetti i sensi esterni/ma tenebre intime lo abitano/; e di tutti i tesori non sa /come prendere possesso./Fortuna e Sfortuna divengono/fantasie per lui, lo rode/nell’abbondanza l’inedia/e, sia delizia sia tormento,/qualunque cosa rimanda a domani,/sempre è in attesa del futuro/e mai gli riesce di concludere”(1008-1009). Questo è lo stato dell’indebitamento-colpevolizzazione universale di cui parla anche il frammento di Benjamin.
Immotivata e immeritata come la Grazia dei calvinisti appare la redenzione –nonostante tutto- dell’ ”eletto” Faust nel finale dell’opera. “Ogni cosa che passa/è solo una figura./Quello che è inattingibile/qui diviene evidenza”(1055). Siamo qui di fronte –nei termini di Benjamin- a una conversione e remissione del peccato (Umkehr) o a una “intensificazione”(Steigerung) quasi nietzscheana del superuomo Faust, che al vertice della colpa assume il suo destino tragico? Vera salvazione o ironico Puppenspiel? Più probabile che “l’immortalità cui i Beati Infanti accompagnano Faust sia una straziante mascherata, un’altra fra le molte della tragedia”(Fortini, p. XXIV) oppure la fantasmagorica trasfigurazione della religione del capitale, a cui Faust si è così radicalmente votato.
Le considerazioni su Nietzsche, in Capitalismo come religione, ricordano soprattutto la Genealogia della morale, dove è esplicitata la connessione debito-colpa: “…Già Nietzsche afferma che il ‘basilare concetto morale di colpa (Schuld) ha preso origine dal concetto molto materiale di debito (Schulden)’ e riconduce genealogicamente l’origine dei concetti morali di colpa, coscienza e dovere alla sfera del diritto delle obbligazioni”[19]
se Cristo scioglie e sospende semplicemente e immediatamente la logica del debito-colpa, non “saldando i debiti” ma radicalmente annullando il concetto stesso di debito –Paolo, al contrario, la istituzionalizza in ambito morale e su di essa costruisce la sua immagine di redenzione come assoluzione (e cioè perdono per l’insolvente, anche se necessariamente insolvente). “In tutta quanta la psicologia del ‘Vangelo’ -commenta Nietzsche- manca la nozione di colpa e di castigo; come pure quella di ricompensa. Il ‘peccato’, qualsiasi rapporto di distanza tra *** e l’uomo, è eliminato -precisamente questa è la ‘buona novella’ “[20]; prima che l’idea del sacrificio espiatorio trasformasse Cristo in vittima per la remissione dei peccati, “Gesù aveva abolito lo stesso concetto di colpa (Schuld), -egli ha negato ogni abisso tra *** e uomo, ha vissuto l’unità del *** fatto uomo come la sua ‘buona novella’…e non come privilegio!”[21]. E’ qui presa di mira la dottrina della predestinazione e della distinzione calvinista tra Eletti (detentori della Grazia) e peccatori-debitori costretti a riconoscere la propria miseria.
Nel passo immediatamente precedente, Nietzsche descrive invece la dis-torsione operata dal “dis-angelista”, dal “falsario” Paolo, che consiste precisamente nel fondare la dottrina cristiana sul concetto di colpa.
Il termine Schuld compare più volte in pochissime righe: “Il sacrificio espiatorio (Schuldopfer) e proprio nella sua forma più ripugnante e barbarica, il sacrificio dell’innocente (Unschuldigen) per i peccati dei colpevoli (Schuldigen)”[22]. L’idea della resurrezione –imposta da Paolo- sostituisce quella della beatitudine, come pratica e condotta di vita, predicata da Cristo. L’impostura di Paolo è profonda e sottile: dopo aver riconosciuto che la Legge stessa produce il peccato, ed è anzi istituita non perché possa davvero essere adempiuta, ma perché l’uomo riconosca il proprio scacco di fronte ad essa e la colpevolezza originale che lo determina, la sua strategia non mira a sospenderne la vigenza nella beatitudine e nel distacco, ma nell’incrementarne a dismisura gli effetti.
Poiché la Legge non viene semplicemente sospesa, poiché il peccato continua a scaturire come un liquido infetto dalla trasgressione di essa, allora è necessario l’intervento della Grazia, che elegge i salvati. Apparentemente Paolo dà seguito all’intenzione di Cristo di sospendere la Legge e sostituirla con l’amore; ma in realtà egli la lascia agire, nel suo atto specifico di produrre la creatura colpevole, e la sua sospensione appare allora come una miracolosa remissione dall’alto del debito-colpa. La logica di tale debito-colpa rimane però intatta, laddove Cristo ne cancellava il principio alla radice.
Questa scissione caratterizza il divenire stesso del cristianesimo, ripresentandosi nei momenti cruciali della sua storia, come conflitto tra la religione dell’amore e quello della colpa. Il primo assolve e dissolve ogni debito, il secondo da un lato pretende che sia pagato, dall’altro –concedendo una grazia- lo condona (il che significa comunque riconoscerne il valore). Questa seconda forma di cristianesimo è propriamente quella su cui il capitalismo –nella formulazione di Benjamin- può innestarsi come parassita.
In tedesco il termine Schuld ha un terzo significato, quello di causa. Secondo W. Hamacher, in Capitalismo come religione esso dovrebbe essere tradotto con tre denotazioni simultanee: debito-colpa-causa. Con questa complessità esso appare in un frammento di Benjamin del 1918, dove viene indicato come categoria di esplicazione del divenire storico, in opposizione a Ursache, “causa”, quest’ultima, che rinvia a un fondamento necessario e deterministico: al contrario, Schuld si riferisce a una causazione morale o giuridica, nel senso in cui si dice che qualcuno è “causa”, è “responsabile” del suo atto (simile per questo aspetto al greco aition –fa notare Hamacher). Ma perché Schuld sarebbe “la più alta” categoria di esposizione della storia e in che modo avrebbe a che fare col debito e la colpa?
Probabilmente siamo di fronte a una prima configurazione di quel “tempo omogeneo e vuoto”, che sarà oggetto della critica di Benjamin, fino alle tesi sul concetto di storia: il suo apparente e ininterrotto divenire è in realtà la perpetuazione e la ripetizione di un continuo stato di mancanza, in cui è assente ogni vero segno di discontinuità e di novità sostanziale. Non ci sono brecce della libertà in questo tempo, che scorre all’insegna di un deficit e di una colpa sempre uguali. Dal punto di vista ontologico, “Schuld è di volta in volta fondamento di un’assenza, di una mancanza, di un deficit…Ogni situazione mondana è Schuld, nella misura in cui genera un’altra situazione deficitaria, e ad essa trasferisce la Schuld. Ogni situazione è dunque incompiuta, manchevole in senso morale o giuridico”[25].
Dal punto di vista generazionale la Schuld implica la trasmissione di una costellazione colpevole dai genitori agli eredi: così, nelle famiglie di Green o di Kafka –come nota Benjamin nei saggi dedicati a questi scrittori- fra padre e figlio esiste un nesso di colpevolezza reciproca, un passaggio patologico di mancanze, che si ripetono di generazione in generazione. Come la colpa destinale dei tragici greci, l’atto manchevole o colpevole trasferisce inalterata la sua potenza dall’uno all’altro, è causa dell’incompiutezza che colpisce l’epoca successiva e che essa trasmetterà a sua volta in eredità: la breccia della libertà dovrebbe spezzare questa catena genealogica, che ha trovato la sua espressione più recente nella concezione edipica di Freud, dovrebbe separarsi “da ogni elemento del mito, dalla colpa (Schuld) determinata genealogicamente, dalla trasmissione, dall’effetto e dalla sua causazione, dalla successione familiare e cronologica”[26]. La storia come sequela continua e colpevole di causa e conseguenza, altro non è che il destino mitico, la violenza perpetua e mimetica, di cui Bemjamin parla nel saggio Per la critica della violenza.
La breccia della libertà non si pone come ulteriore causazione di un ordine, di un diritto, di una istituzione, di una costellazione familiare, ma come interruzione e azione imprevedibile, nel senso proposto da H. Arendt: non fondazione di un nuovo ordine giuridico e penale, ma sostituzione della logica della Giustizia a quella del diritto. Si può ipotizzare che questo significhi la rottura col rapporto dissimmetrico servo-padrone, che persiste nella costellazione debitore-creditore, padre-figlio, sovranità-servitù volontaria: la storia come perpetua fondazione, Schuld, di catene di dipendenza asimmetrica, è interrotta dalla relazione di riconoscimento, in cui affermo l’alterità dell’altro, condivido l’essenza umana con l’altro, decido della nostra situazione comune con l’altro.
Secondo Hamacher la concezione mitico-storica della Schuld, finisce per determinare anche l’immagine di *** nel cristianesimo, per chiamarlo in causa, per renderlo affine al *** immanente del capitalismo.
In questo senso si può forse spiegare l’apparentemente paradossale affermazione di Benjamin, per cui *** stesso è trascinato e coinvolto nel contesto del debito e della colpevolezza. In questa sua obbligazione permanente verso la propria decisione, il *** della predestinazione è privo di vera Grazia, dell’eccezione che potrebbe spezzare la decisione stessa, e si palesa simile al fato e al destino mitico.
Il capitale non si presenta solo come rapporto debitorio e neanche solo nella colpevolizzazione generalizzata; ma anche come causa e fondamento autogenerantesi di se stesso. Esso ha l’apparenza di un divenire, in cui ogni movimento è causa di un ulteriore incremento, e deforma la storia in una causazione predeterminata, da cui sono escluse le azioni e le brecce della libertà. L’incremento è reso necessario per evitare l’altrimenti minaccioso stato di mancanza e di deficit -e tra questi due poli non c’è né alternativa, ne discontinuità possibile: ad ogni generazione si perpetua la Cura, cioè il fantasma di una mancanza, a cui occorre supplire con una ulteriore causazione di capitale, che tuttavia riproduce potenziato lo spettro deficitario
In questa circolarità demonica si muove lo spirito inquieto del denaro. Ne consegue la “moderna dottrina che un popolo diviene tanto più ricco, quanto più s’empie di debiti.
Nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin distingue due forme di tecnica: una è dominata da un’intenzione arcaica, simile a quella della magia, diretta al dominio della physis e all’affermazione della volontà di potenza[39]. Essa poteva pure essere inevitabile fin quando la natura era percepita come una forza ostile, sovrastante e invincibile; diviene tuttavia sempre più unilaterale e rischia di esaurire le risorse elementari della vita. Esiste invece una seconda forma di tecnica, che tende a sviluppare un legame armonico tra l’umanità e il cosmo; essa mira – come si dice nell’edizione francese dell’opera –ad un “jeu armonien”[40], che riguarda anche il rapporto reciproco degli uomini, e questo termine è ispirato direttamente dalle utopie di Fourier.
Tale relazione si oppone a quella del lavoro e dello sfruttamento: essa non implica affatto un salto nell’arbitrio o nell’irrazionalità. Il gioco indica lo spazio aperto dell’intersoggettività non più dominata in modo esclusivo dal rapporto mezzo-fine; esso è però articolato da regole reciproche e condivise, da un assenso comune, che richiede l’accettazione di un limite alle mie possibilità di azione e di espressione. Tale misura non è tuttavia imposta da un’autorità superiore, gerarchica o paterna, ma dal “pensare in comune”, dalla persuasione in atto del “pensiero ampliato”, come diceva Arendt.
Il conflitto stesso – per non divenire guerra – è trasferito entro un codice linguistico. Il gioco è perciò fondato su un principio di eguaglianza che si oppone a quello asimmetrico del lavoro sfruttato, dominato dalla relazione servo-padrone; su un criterio di riconoscimento, che sospende e disattiva l’astrazione capitalista. Esso arresta dunque l’intenzione magica della volontà di potenza, caratteristica della “prima tecnica” e si realizza grazie a una “seconda tecnica”, non più finalizzata necessariamente allo sviluppo e all’incremento delle quantità prodotte, ma alla qualità delle relazioni umane fra produttori. Questa è fondata su un limite accettato nel rapporto con la natura, che non viene cancellata, ma intensificata,