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Cosa che comunque si potrebbe fare anche senza uscire dall'eurozona, secondo me. Servirebbe la volontà politica di farlo: e con volontà politica mi riferisco anche al combattere la criminalità che distrugge certi posti; educare le persone combattendo l'idea che studiare non serva, che uNo VaLe UnO (grazie m5s); mi riferisco alla "bonifica" delle nostre coste, dove arrivano gli scarichi fognari. E per fare questo credo serva la volontà di farlo (volontà che manca credo perché non si avrebbe un profitto immediato, e perché credo che si viva in una società che parla sempre più di diritti e sempre meno di doveri, e questa pandemia, per certi aspetti, l'ha confermato). 
Non puoi investire senza uscire dall'Euro. Dopo 20 anni di governi di sinistra, destra e tecnici ormai questa cosa dovrebbe essere assodata.

Che hai più persone che lavorano, la producono più cose diverse, e in maggiore quantità (da qui il "martellamento" del dover valorizzare il made in Italy per la qualità), e se un Paese produce di più, soprattutto in Cina, dove tutti i grandi marchi di massa si appoggiano, allora il Paese è più ricco. Soprattutto considerando che in Cina poi non pagano un cazzo. 
L'hai scritto tu: un paese ricco dalla popolazione povera. Non è questo che vorrei per l'Italia e si può tranquillamente evitare di farlo.

 
Non puoi investire senza uscire dall'Euro. Dopo 20 anni di governi di sinistra, destra e tecnici ormai questa cosa dovrebbe essere assodata.
Il punto è che in 20 anni non mi sembra, ma potrei sbagliarmi, si siano mai sostenuti politici (non solo in Italia) che volessero il bene dell'Europa e non solo del loro singolo stato

L'hai scritto tu: un paese ricco dalla popolazione povera. Non è questo che vorrei per l'Italia e si può tranquillamente evitare di farlo.
Sì, ma è proprio l'evitare di farlo (cosa sacrosanta) che non ci permetterebbe di competere con la mostruosa produzione degli altri Paesi nominati 

 
Per ampliare sulle questioni poste in essere da Cart: 

http://www.asimmetrie.org/opinions/la-deflazione-salariale-spiegata-agli-operai-della-whirlpool-che-la-conoscono-gia/


LA DEFLAZIONE SALARIALE SPIEGATA AGLI OPERAI DELLA WHIRLPOOL (CHE LA CONOSCONO GIÀ)

25 POSTED BY REDAZIONE - 11 FEBBRAIO 2016 - BLOG 
Spiegare ai compagni della Whirpool cosa significhi deflazione salariale è in un certo senso imbarazzante. Suppongo che loro sappiano benissimo cosa significhi per averla provata sulla propria pelle. Il padrone glielo avrà spiegato mille e una volta: in tanti altri paesi i salari sono molto, ma molto più bassi che in Italia. Allora che fate? O i vostri salari diminuiscono, oppure decentriamo la produzione (oppure chiudiamo e basta). È la globalizzazione bellezza, e se a decidere è una multinazionale è ancor peggio perché il ricatto di spostare la produzione è più forte.


BOX 1 – Deflazione salariale vuol dire competere con gli altri paesi giocando su un basso costo del lavoro. Si noti che questo vuol dire rinunciare a un ampio mercato interno per i prodotti – se i salari sono bassi, tali saranno anche i consumi – con l’obiettivo di conquistare mercati esteri. La strategia di deflazione salariale è detta anche deflazione competitiva: si punta a tenere prezzi e salari nazionali bassi per spiazzare i concorrenti sui mercati esteri. L’obiezione fondamentale alla deflazione competitiva è che se tutti i paesi adottano questa strategia, chi compra? E’ questo il nodo fondamentale del capitalismo, per cui oggi si parla di stagnazione secolare, un pericolo che deriva dal pauroso aumento della diseguaglianza.



Una prima linea di difesa dei lavoratori è nella qualità del lavoro, che non è la medesima in tutti i paesi ed è certamente più elevata in Italia. In sostanza quello che l’impresa guadagna via minori salari se sposta la produzione, lo perde sul piano della produttività (prodotto per lavoratore). Ma naturalmente questo è vero fino a un certo punto, in quanto le produzioni più standardizzate sono facilmente trasferibili, e con macchinario adeguato la produttività è la medesima. È solo quando il prodotto richiede conoscenze molto puntuali e non facilmente trasferibili che ci si difende bene. Ma a quel punto è il medesimo padrone a non voler trasferire la produzione, che viene anzi spesso riportata in Italia dove i lavoratori sono più addestrati. Ma su questo, di nuovo, siete voi che fate scuola a me.

Entro certi versi, quello che un tempo si chiamava il ciclo del prodotto è un fatto fisiologico. L’idea è che le produzioni più innovative svolte nei paesi avanzati col tempo si standardizzino e vengono trasferite nei paesi più arretrati, essendo sostituite con nuove produzioni innovative e così via. Un tempo si riteneva anche che fosse compito dei governi stimolare questi processi facendo scivolare il paese verso produzioni più sofisticate, cedendo quelle meno avanzate ai paesi più arretrati.

In Italia questo upgrading è avvenuto in misura inferiore agli altri paesi avanzati, e con delle peculiarità. I punti di forza del Made in Italy sono diventati, com’è noto, la meccanica, il sistema moda e, ultimamente, l’agroalimentare. Molto poco per un paese che a fine degli anni 1960 vantava quella che un tempo si chiamava una “matrice industriale completa”, vale a dire produceva un po’ di tutto, dal nucleare all’elettromeccanica, dal chiodo al microchip, dal farmaco alle scarpe.

Purtroppo l’industria di Stato che concentrava molte di queste competenze è stata dapprima vittima della spartizione partitica, che l’ha spogliata delle grandi capacità imprenditoriali maturate dagli anni 1930 sotto la guida dei grandi commis d’Etat antifascisti che l’avevano presa in mano (comprese le grandi banche). E infine svenduta a brandelli al settore privato attraverso le privatizzazioni. Spesso a capitali stranieri che l’hanno acquisita a saldo dei debiti esteri che l’Italia ha maturato negli anni dello SME (il sistema monetario europeo) e poi dell’euro, i due sistemi di cambio fissi a cui il Paese ha in successione aderito dal 1979 e su cui torneremo. L’eccesso di conflitto sociale a partire dai primi anni 1960 non ha poi certo favorito una evoluzione positiva della grande impresa italiana, la quale si è invece ritratta sino quasi a scomparire. Perché la Ignis, o la Rex-Zanussi non sono diventate una Samsung o, almeno, una Bosch? Perché tanti brand dei Caroselli di quand’eravamo bambini (o almeno io lo ero) sono spariti?

Mentre altri Paesi come la Corea del Sud o Taiwan si incamminavano verso produzioni di massa avanzate, il nostro si smarriva nel conflitto sociale. Ma vale la pena chiedersi di chi è la responsabilità di una conflittualità spesso esacerbata. Mentre ulteriore lavoro storico sarebbe necessario, non si è lontani dalla verità se la si attribuisce a una borghesia incapace da sempre a venire incontro alle istanze sociali delle grandi masse popolari. Dai cannoni di Bava Beccaris, al fascismo, alla “stretta monetaria” e prime minacce golpiste del 1963, alla strategia della tensione, sino a Berlusconi (e al suo epigono Renzi), e infine con l’euro, la borghesia italiana ha sempre reagito alla domanda di giustizia negando legittimità alle istanze sociali, timorosa di perdere i propri privilegi, al massimo corrompendo masse con il clientelismo diffuso e le elemosine – dai pacchi di pasta di Lauro agli ottanta euro di Renzi. È al principio degli anni 1960 che si compie la scelta decisiva: il Paese era cresciuto, le premesse economiche per una vera modernizzazione del Paese c’erano, una borghesia capace di guidarla no. Alla difesa dei settori nazionali moderni (l’elettronica di Olivetti, il nucleare di Ippolito, il petrolio di Mattei), e a una riposta in positivo alle istanze di giustizia sociale del primo ciclo di lotte operaie, si sostituì la svendita di quei settori al capitale straniero, la stretta monetaria, e lo sfruttamento selvaggio della forza lavoro, senza riforme sociali. Il secondo ciclo di lotte operaie dal 1969 fu la risposta dei lavoratori. Molto si ottenne, altrettanto lo si sta ora restituendo.

Negli anni 1970 il Paese continuò comunque a crescere, con il conflitto spesso moderato attraverso l’impiego non sempre appropriato della finanza pubblica e l’utilizzo del cambio (svalutazione della lira) per compensare la maggiore inflazione interna. Le istanze progressive delle lotte operaie e studentesche furono molto, solo molto parzialmente guidate dalla sinistra verso un riformismo forte, ostacolate in questo dalla borghesia golpista, in un clima reso più cupo da un estremismo diventato col tempo violento. L’aumento del prezzo del petrolio, per cui anche i Paesi petroliferi ambirono a una fetta maggiore della torta, fu un’ulteriore elemento esacerbante del conflitto.


BOX 2 – Il conflitto distributivo fra lavoratori e capitalisti genera inflazione, la famosa spirale prezzi-salari. I Paesi produttori di petrolio e materie prime possono costituire il terzo incomodo. Una inflazione interna maggiore dei concorrenti (per esempio di Germania e Francia) porta a una perdita di competitività. In termini semplici: i nostri prodotti cominciano a costare più dei loro. Una svalutazione della nostra moneta, quando ce l’avevamo, aumentava il potere d’acquisto degli stranieri: coi marchi un tedesco comprava più beni prezzati in lire. Allora la svalutazione, accrescendo il potere d’acquisto degli stranieri, compensava l’aumento dei prezzi in lire dei nostri prodotti. Certo, con una lira deprezzata, diminuiva il potere d’acquisto di merci estere per i lavoratori italiani. Ma né questo, né l’inflazione interna erano sufficienti a annullare l’aumento dei salari reali ottenuto con le lotte.



La svolta avvenne alla fine degli anni 1970 quando, superato l’apice del terrorismo, il Paese allineò le proprie politiche alla nuova ventata monetarista che si andava affermando in Europa e negli Stati Uniti. In questi ultimi, muore con Carter l’ultimo rigurgito keynesiano. L’adesione al sistema europeo di cambi fissi, lo SME (sistema monetario europeo), fu il segnale ai sindacati che la politica economica non avrebbe più accomodato il conflitto sulla distribuzione del reddito attraverso il tasso di cambio. Il meccanismo è spiegato nel BOX 2: il conflitto salariale genera inflazione; quest’ultima fa perdere competitività al paese, per la ragione banale che i prezzi delle merci che produce aumentano più che all’estero; il deprezzamento del cambio fa recuperare la competitività. Abilmente, per gran parte degli anni 1970 l’Italia aveva cercato di svalutare rispetto al marco, preservando la competitività nel mercato tedesco che è il nostro più importante, mantenendo invece stabile il cambio col dollaro (avvalendosi del contestuale indebolimento di quest’ultimo nei confronti del marco), sì da mantenere invariato il prezzo delle importazioni petrolifere (fatti salvi gli aumenti decisi dai produttori). In tutto questo i dati mostrano che i salari reali riuscivano a crescere – la deflazione e non l’inflazione è nemica dei salari. Tanto più che la produttività del lavoro continuava a crescere, guidata dalla domanda interna ed estera.


BOX 3 – “Tassi di inflazione relativamente sostenuti sono spesso associati a tassi di disoccupazione contenuti e quindi a posizioni di forza dei lavoratori nelle contrattazioni sindacali, a beneficio del mantenimento della crescita dei salari reali, e della quota dei salari sul prodotto. Il processo di disinflazione [successivamente] compiuto …ha eroso (via disoccupazione) le posizioni contrattuali dei lavoratori, favorendo lo smantellamento dei presidi del loro potere d’acquisto (meccanismi di indicizzazione del salario) e quindi, inevitabilmente, riducendo la quota dei salari sul prodotto.” A.Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, 2012).



Certo, di meglio si poteva fare: più giustizia distributiva e fiscale avrebbero potuto moderare il conflitto, ciò che avrebbe però richiesto una borghesia lungimirante; un più rapido adeguamento dell’imposizione fiscale e la lotta all’evasione, a fronte di una spesa sociale che finalmente cominciava ad adeguarsi agli standard europei avrebbe impedito l’esplodere del debito pubblico, la cui concausa furono gli alti tassi di interesse conseguenza dello SME. Per chiarire quest’ultimo punto: nel corso degli anni 1980, con i cambi fissi e un’inflazione in discesa, ma pur sempre più alta della Germania, il nostro Paese si trovò con forti disavanzi esteri. Non potendo infatti più svalutare adeguatamente per compensare la più elevata inflazione, la competitività del Paese ne soffrì. Questo implicò indebitamento verso l’estero a tassi di interessi crescenti (gli stranieri investivano sì in titoli italiani, ma per coprirsi dal rischio di svalutazione della lira chiedevano tassi assai onerosi). Con l’uscita (temporanea) dallo SME nel 1992, la svalutazione e la ripresa delle esportazioni consentì al Paese di riaggiustare i conti esteri e restituire il debito estero.

Dagli anni 1990 la globalizzazione di capitale e lavoro si fa più massiccia. Questa va intesa come un imponente movimento del capitalismo verso l’estensione su scala globale dell’esercito industriale di riserva (la sacca di disoccupati che serve a calmierare i salari, il termine è di Marx). Da un lato gli impianti si spostano verso paesi dove il costo del lavoro è più basso, dall’altro i fenomeni migratori portano all’interno dei paesi industrializzati la concorrenza della forza-lavoro a basso costo. La pressione su salari e diritti si fa tremenda. Al contempo il rafforzamento delle grandi istituzioni internazionali come il WTO (oggi il TTIP) è volto a smantellare i poteri degli Stati sovrani, sì da depotenziare la linea di difesa dei diritti costituito dalle istituzioni democratiche nazionali. Il rafforzamento delle istituzioni europee culminato nella creazione della moneta unica si iscrive in questo quadro.

L’euro è la sanzione della strategia della deflazione salariale. L’ideologia che guida l’Italia ad aderire alla moneta unica è quella del “legarsi le mani”, come fu definita da due sciagurati economisti (Francesco Giavazzi e Marco Pagano): cancellata definitivamente la possibilità di aggiustare il cambio, l’unica via per mantenere i posti di lavoro è la deflazione salariale. Naturalmente questo non viene detto esplicitamente: si dice che l’euro imporrà di effettuare le riforme che il Paese da lungo attende (leggi la riforma del mercato del lavoro culminata nel Jobs Act).

Il BOX 1 illustrava come, tuttavia, se tutti i paesi adottano la deflazione competitiva, questo è un gioco a somma zero, se vince uno perde l’altro e dunque il paese che fa più deflazione salariale spiazza gli altri in un suicida gioco al ribasso. E il paese più bravo a farla è stata la Germania che, con le riforme del mercato del lavoro del socialdemocratico Schroeder, spiazzò tutti nel 2003. Alla deflazione salariale la Germania affiancò la sua tradizionale forza produttiva sostenuta da un poderoso apparato statale pro-business (ricerca, ottima formazione a ogni livello, apparato pubblico e politica estera sostegni delle esportazioni ecc.), quello che si chiama Stato mercantilista insomma. Pur con un’inflazione ridotta al lumicino, il nostro Paese si vede di nuovo spiazzato dal temuto concorrente, ed è allora che il discorso sul declino italiano si fa più pressante. Oggi la Spagna è portata ad esempio di successo della deflazione salariale: vedete, si dice, come tempestive riforme del mercato del lavoro (leggi smantellamento dei diritti sindacali e condizioni di lavoro massacranti) portano alla ripresa del Pil? Non ci si rende conto che in Europa questo, alla lunga, non è neppure un gioco a somma zero, in cui almeno uno vince, ma è un gioco al massacro collettivo: il vincitore si ergerà alla fine sulle rovine dei concorrenti, e sulle proprie. Non esattamente un successo.

Qual è l’alternativa? Quella più ragionevole sarebbe di politiche europee espansive concertate fra i diversi paesi, con la Germania a fare da traino espandendo il proprio mercato interno attraverso un cospicuo aumento di salari e spesa pubblica. Dunque l’abbandono della deflazione salariale innanzitutto da parte del paese leader. Ma ciò non accadrà. La Germania non abbandonerà mai il proprio modello mercantilista (vendere agli altri e non comprare). Questo paese costituirebbe comunque un problema anche se l’euro crollasse.

In questo quadro scoraggiante, non sono in grado di dare suggerimenti ai compagni della Whirpool su quale strategia sindacale adottare a livello locale. Sindacati ed enti locali dovrebbero forse costringere l’azienda ad impegnarsi in politiche dell’innovazione, in collaborazione per esempio con le università toscane, per individuare nuovi prodotti di alta gamma, anche puntando sulla formazione del personale. Ma sono solo idee, come noto, chi sa fa, chi non sa insegna. A livello nazionale si tratta ovviamente di combattere le politiche di austerità che sono anch’esse parte della deflazione salariale in quanto mirano ad abbattere il salario indiretto, quello consistente di erogazioni sociali (pensioni, sanità, istruzione, assistenza sociale). Queste politiche hanno distrutto il mercato interno portando a una drammatica perdita di capacità produttiva. Va inoltre accresciuta la consapevolezza che l’Europa, monetaria e non, è lo strumento della deflazione salariale (ce lo chiede l’Europa), e poco conta il contentino che ci viene dato sul terreno dei diritti civili, che funge da specchietto per le allodole.


BOX 4 – La deflazione salariale come strategia del capitalismo nazionale ha l’obiettivo di catturare i famosi due piccioni con una fava: i bassi salari tengono alti i profitti, e allo stesso tempo consentono di vendere l’eccedenza del prodotto all’estero. Così, nonostante i bassi consumi interni dovuti ai bassi salari, non c’è un problema di mercato. La questione è che se fan tutti così, come s’è visto, la strategia diventa un gioco al ribasso rovinoso per tutti.



Sergio CesarattoDipartimento di Economia, Università di Siena
 
Ultima modifica:
Ammazza che bomba il decreto scuola ma  parlamento esiste ancora? 

 
Se usiamo il concetto di Uomo = Macchina tanto caro ad Amazon, hai perfettamente ragione, ma non tutti credono vera questa equazione. 

Chissà quelli che sono sopravvissuti come hanno fatto.

Dai ragazzi, su. Non bisogna vedere sempre e comunque del marcio in ogni cosa.
sopravvissuti a cosa?

 
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LA DEFLAZIONE SALARIALE SPIEGATA AGLI OPERAI DELLA WHIRLPOOL (CHE LA CONOSCONO GIÀ)

25 POSTED BY REDAZIONE - 11 FEBBRAIO 2016 - BLOG 
Spiegare ai compagni della Whirpool cosa significhi deflazione salariale è in un certo senso imbarazzante. Suppongo che loro sappiano benissimo cosa significhi per averla provata sulla propria pelle. Il padrone glielo avrà spiegato mille e una volta: in tanti altri paesi i salari sono molto, ma molto più bassi che in Italia. Allora che fate? O i vostri salari diminuiscono, oppure decentriamo la produzione (oppure chiudiamo e basta). È la globalizzazione bellezza, e se a decidere è una multinazionale è ancor peggio perché il ricatto di spostare la produzione è più forte.


BOX 1 – Deflazione salariale vuol dire competere con gli altri paesi giocando su un basso costo del lavoro. Si noti che questo vuol dire rinunciare a un ampio mercato interno per i prodotti – se i salari sono bassi, tali saranno anche i consumi – con l’obiettivo di conquistare mercati esteri. La strategia di deflazione salariale è detta anche deflazione competitiva: si punta a tenere prezzi e salari nazionali bassi per spiazzare i concorrenti sui mercati esteri. L’obiezione fondamentale alla deflazione competitiva è che se tutti i paesi adottano questa strategia, chi compra? E’ questo il nodo fondamentale del capitalismo, per cui oggi si parla di stagnazione secolare, un pericolo che deriva dal pauroso aumento della diseguaglianza.



Una prima linea di difesa dei lavoratori è nella qualità del lavoro, che non è la medesima in tutti i paesi ed è certamente più elevata in Italia. In sostanza quello che l’impresa guadagna via minori salari se sposta la produzione, lo perde sul piano della produttività (prodotto per lavoratore). Ma naturalmente questo è vero fino a un certo punto, in quanto le produzioni più standardizzate sono facilmente trasferibili, e con macchinario adeguato la produttività è la medesima. È solo quando il prodotto richiede conoscenze molto puntuali e non facilmente trasferibili che ci si difende bene. Ma a quel punto è il medesimo padrone a non voler trasferire la produzione, che viene anzi spesso riportata in Italia dove i lavoratori sono più addestrati. Ma su questo, di nuovo, siete voi che fate scuola a me.

Entro certi versi, quello che un tempo si chiamava il ciclo del prodotto è un fatto fisiologico. L’idea è che le produzioni più innovative svolte nei paesi avanzati col tempo si standardizzino e vengono trasferite nei paesi più arretrati, essendo sostituite con nuove produzioni innovative e così via. Un tempo si riteneva anche che fosse compito dei governi stimolare questi processi facendo scivolare il paese verso produzioni più sofisticate, cedendo quelle meno avanzate ai paesi più arretrati.

In Italia questo upgrading è avvenuto in misura inferiore agli altri paesi avanzati, e con delle peculiarità. I punti di forza del Made in Italy sono diventati, com’è noto, la meccanica, il sistema moda e, ultimamente, l’agroalimentare. Molto poco per un paese che a fine degli anni 1960 vantava quella che un tempo si chiamava una “matrice industriale completa”, vale a dire produceva un po’ di tutto, dal nucleare all’elettromeccanica, dal chiodo al microchip, dal farmaco alle scarpe.

Purtroppo l’industria di Stato che concentrava molte di queste competenze è stata dapprima vittima della spartizione partitica, che l’ha spogliata delle grandi capacità imprenditoriali maturate dagli anni 1930 sotto la guida dei grandi commis d’Etat antifascisti che l’avevano presa in mano (comprese le grandi banche). E infine svenduta a brandelli al settore privato attraverso le privatizzazioni. Spesso a capitali stranieri che l’hanno acquisita a saldo dei debiti esteri che l’Italia ha maturato negli anni dello SME (il sistema monetario europeo) e poi dell’euro, i due sistemi di cambio fissi a cui il Paese ha in successione aderito dal 1979 e su cui torneremo. L’eccesso di conflitto sociale a partire dai primi anni 1960 non ha poi certo favorito una evoluzione positiva della grande impresa italiana, la quale si è invece ritratta sino quasi a scomparire. Perché la Ignis, o la Rex-Zanussi non sono diventate una Samsung o, almeno, una Bosch? Perché tanti brand dei Caroselli di quand’eravamo bambini (o almeno io lo ero) sono spariti?

Mentre altri Paesi come la Corea del Sud o Taiwan si incamminavano verso produzioni di massa avanzate, il nostro si smarriva nel conflitto sociale. Ma vale la pena chiedersi di chi è la responsabilità di una conflittualità spesso esacerbata. Mentre ulteriore lavoro storico sarebbe necessario, non si è lontani dalla verità se la si attribuisce a una borghesia incapace da sempre a venire incontro alle istanze sociali delle grandi masse popolari. Dai cannoni di Bava Beccaris, al fascismo, alla “stretta monetaria” e prime minacce golpiste del 1963, alla strategia della tensione, sino a Berlusconi (e al suo epigono Renzi), e infine con l’euro, la borghesia italiana ha sempre reagito alla domanda di giustizia negando legittimità alle istanze sociali, timorosa di perdere i propri privilegi, al massimo corrompendo masse con il clientelismo diffuso e le elemosine – dai pacchi di pasta di Lauro agli ottanta euro di Renzi. È al principio degli anni 1960 che si compie la scelta decisiva: il Paese era cresciuto, le premesse economiche per una vera modernizzazione del Paese c’erano, una borghesia capace di guidarla no. Alla difesa dei settori nazionali moderni (l’elettronica di Olivetti, il nucleare di Ippolito, il petrolio di Mattei), e a una riposta in positivo alle istanze di giustizia sociale del primo ciclo di lotte operaie, si sostituì la svendita di quei settori al capitale straniero, la stretta monetaria, e lo sfruttamento selvaggio della forza lavoro, senza riforme sociali. Il secondo ciclo di lotte operaie dal 1969 fu la risposta dei lavoratori. Molto si ottenne, altrettanto lo si sta ora restituendo.

Negli anni 1970 il Paese continuò comunque a crescere, con il conflitto spesso moderato attraverso l’impiego non sempre appropriato della finanza pubblica e l’utilizzo del cambio (svalutazione della lira) per compensare la maggiore inflazione interna. Le istanze progressive delle lotte operaie e studentesche furono molto, solo molto parzialmente guidate dalla sinistra verso un riformismo forte, ostacolate in questo dalla borghesia golpista, in un clima reso più cupo da un estremismo diventato col tempo violento. L’aumento del prezzo del petrolio, per cui anche i Paesi petroliferi ambirono a una fetta maggiore della torta, fu un’ulteriore elemento esacerbante del conflitto.


BOX 2 – Il conflitto distributivo fra lavoratori e capitalisti genera inflazione, la famosa spirale prezzi-salari. I Paesi produttori di petrolio e materie prime possono costituire il terzo incomodo. Una inflazione interna maggiore dei concorrenti (per esempio di Germania e Francia) porta a una perdita di competitività. In termini semplici: i nostri prodotti cominciano a costare più dei loro. Una svalutazione della nostra moneta, quando ce l’avevamo, aumentava il potere d’acquisto degli stranieri: coi marchi un tedesco comprava più beni prezzati in lire. Allora la svalutazione, accrescendo il potere d’acquisto degli stranieri, compensava l’aumento dei prezzi in lire dei nostri prodotti. Certo, con una lira deprezzata, diminuiva il potere d’acquisto di merci estere per i lavoratori italiani. Ma né questo, né l’inflazione interna erano sufficienti a annullare l’aumento dei salari reali ottenuto con le lotte.



La svolta avvenne alla fine degli anni 1970 quando, superato l’apice del terrorismo, il Paese allineò le proprie politiche alla nuova ventata monetarista che si andava affermando in Europa e negli Stati Uniti. In questi ultimi, muore con Carter l’ultimo rigurgito keynesiano. L’adesione al sistema europeo di cambi fissi, lo SME (sistema monetario europeo), fu il segnale ai sindacati che la politica economica non avrebbe più accomodato il conflitto sulla distribuzione del reddito attraverso il tasso di cambio. Il meccanismo è spiegato nel BOX 2: il conflitto salariale genera inflazione; quest’ultima fa perdere competitività al paese, per la ragione banale che i prezzi delle merci che produce aumentano più che all’estero; il deprezzamento del cambio fa recuperare la competitività. Abilmente, per gran parte degli anni 1970 l’Italia aveva cercato di svalutare rispetto al marco, preservando la competitività nel mercato tedesco che è il nostro più importante, mantenendo invece stabile il cambio col dollaro (avvalendosi del contestuale indebolimento di quest’ultimo nei confronti del marco), sì da mantenere invariato il prezzo delle importazioni petrolifere (fatti salvi gli aumenti decisi dai produttori). In tutto questo i dati mostrano che i salari reali riuscivano a crescere – la deflazione e non l’inflazione è nemica dei salari. Tanto più che la produttività del lavoro continuava a crescere, guidata dalla domanda interna ed estera.


BOX 3 – “Tassi di inflazione relativamente sostenuti sono spesso associati a tassi di disoccupazione contenuti e quindi a posizioni di forza dei lavoratori nelle contrattazioni sindacali, a beneficio del mantenimento della crescita dei salari reali, e della quota dei salari sul prodotto. Il processo di disinflazione [successivamente] compiuto …ha eroso (via disoccupazione) le posizioni contrattuali dei lavoratori, favorendo lo smantellamento dei presidi del loro potere d’acquisto (meccanismi di indicizzazione del salario) e quindi, inevitabilmente, riducendo la quota dei salari sul prodotto.” A.Bagnai, Il tramonto dell’euro, Imprimatur, 2012).



Certo, di meglio si poteva fare: più giustizia distributiva e fiscale avrebbero potuto moderare il conflitto, ciò che avrebbe però richiesto una borghesia lungimirante; un più rapido adeguamento dell’imposizione fiscale e la lotta all’evasione, a fronte di una spesa sociale che finalmente cominciava ad adeguarsi agli standard europei avrebbe impedito l’esplodere del debito pubblico, la cui concausa furono gli alti tassi di interesse conseguenza dello SME. Per chiarire quest’ultimo punto: nel corso degli anni 1980, con i cambi fissi e un’inflazione in discesa, ma pur sempre più alta della Germania, il nostro Paese si trovò con forti disavanzi esteri. Non potendo infatti più svalutare adeguatamente per compensare la più elevata inflazione, la competitività del Paese ne soffrì. Questo implicò indebitamento verso l’estero a tassi di interessi crescenti (gli stranieri investivano sì in titoli italiani, ma per coprirsi dal rischio di svalutazione della lira chiedevano tassi assai onerosi). Con l’uscita (temporanea) dallo SME nel 1992, la svalutazione e la ripresa delle esportazioni consentì al Paese di riaggiustare i conti esteri e restituire il debito estero.

Dagli anni 1990 la globalizzazione di capitale e lavoro si fa più massiccia. Questa va intesa come un imponente movimento del capitalismo verso l’estensione su scala globale dell’esercito industriale di riserva (la sacca di disoccupati che serve a calmierare i salari, il termine è di Marx). Da un lato gli impianti si spostano verso paesi dove il costo del lavoro è più basso, dall’altro i fenomeni migratori portano all’interno dei paesi industrializzati la concorrenza della forza-lavoro a basso costo. La pressione su salari e diritti si fa tremenda. Al contempo il rafforzamento delle grandi istituzioni internazionali come il WTO (oggi il TTIP) è volto a smantellare i poteri degli Stati sovrani, sì da depotenziare la linea di difesa dei diritti costituito dalle istituzioni democratiche nazionali. Il rafforzamento delle istituzioni europee culminato nella creazione della moneta unica si iscrive in questo quadro.

L’euro è la sanzione della strategia della deflazione salariale. L’ideologia che guida l’Italia ad aderire alla moneta unica è quella del “legarsi le mani”, come fu definita da due sciagurati economisti (Francesco Giavazzi e Marco Pagano): cancellata definitivamente la possibilità di aggiustare il cambio, l’unica via per mantenere i posti di lavoro è la deflazione salariale. Naturalmente questo non viene detto esplicitamente: si dice che l’euro imporrà di effettuare le riforme che il Paese da lungo attende (leggi la riforma del mercato del lavoro culminata nel Jobs Act).

Il BOX 1 illustrava come, tuttavia, se tutti i paesi adottano la deflazione competitiva, questo è un gioco a somma zero, se vince uno perde l’altro e dunque il paese che fa più deflazione salariale spiazza gli altri in un suicida gioco al ribasso. E il paese più bravo a farla è stata la Germania che, con le riforme del mercato del lavoro del socialdemocratico Schroeder, spiazzò tutti nel 2003. Alla deflazione salariale la Germania affiancò la sua tradizionale forza produttiva sostenuta da un poderoso apparato statale pro-business (ricerca, ottima formazione a ogni livello, apparato pubblico e politica estera sostegni delle esportazioni ecc.), quello che si chiama Stato mercantilista insomma. Pur con un’inflazione ridotta al lumicino, il nostro Paese si vede di nuovo spiazzato dal temuto concorrente, ed è allora che il discorso sul declino italiano si fa più pressante. Oggi la Spagna è portata ad esempio di successo della deflazione salariale: vedete, si dice, come tempestive riforme del mercato del lavoro (leggi smantellamento dei diritti sindacali e condizioni di lavoro massacranti) portano alla ripresa del Pil? Non ci si rende conto che in Europa questo, alla lunga, non è neppure un gioco a somma zero, in cui almeno uno vince, ma è un gioco al massacro collettivo: il vincitore si ergerà alla fine sulle rovine dei concorrenti, e sulle proprie. Non esattamente un successo.

Qual è l’alternativa? Quella più ragionevole sarebbe di politiche europee espansive concertate fra i diversi paesi, con la Germania a fare da traino espandendo il proprio mercato interno attraverso un cospicuo aumento di salari e spesa pubblica. Dunque l’abbandono della deflazione salariale innanzitutto da parte del paese leader. Ma ciò non accadrà. La Germania non abbandonerà mai il proprio modello mercantilista (vendere agli altri e non comprare). Questo paese costituirebbe comunque un problema anche se l’euro crollasse.

In questo quadro scoraggiante, non sono in grado di dare suggerimenti ai compagni della Whirpool su quale strategia sindacale adottare a livello locale. Sindacati ed enti locali dovrebbero forse costringere l’azienda ad impegnarsi in politiche dell’innovazione, in collaborazione per esempio con le università toscane, per individuare nuovi prodotti di alta gamma, anche puntando sulla formazione del personale. Ma sono solo idee, come noto, chi sa fa, chi non sa insegna. A livello nazionale si tratta ovviamente di combattere le politiche di austerità che sono anch’esse parte della deflazione salariale in quanto mirano ad abbattere il salario indiretto, quello consistente di erogazioni sociali (pensioni, sanità, istruzione, assistenza sociale). Queste politiche hanno distrutto il mercato interno portando a una drammatica perdita di capacità produttiva. Va inoltre accresciuta la consapevolezza che l’Europa, monetaria e non, è lo strumento della deflazione salariale (ce lo chiede l’Europa), e poco conta il contentino che ci viene dato sul terreno dei diritti civili, che funge da specchietto per le allodole.


BOX 4 – La deflazione salariale come strategia del capitalismo nazionale ha l’obiettivo di catturare i famosi due piccioni con una fava: i bassi salari tengono alti i profitti, e allo stesso tempo consentono di vendere l’eccedenza del prodotto all’estero. Così, nonostante i bassi consumi interni dovuti ai bassi salari, non c’è un problema di mercato. La questione è che se fan tutti così, come s’è visto, la strategia diventa un gioco al ribasso rovinoso per tutti.



Sergio CesarattoDipartimento di Economia, Università di Siena
Il punto non è "se così fan tutti" ma "così fan tutti". E l'alternativa, Cesaratto, la sa bene: è il socialismo, altro che cazzate.

 
Ma cosa sarebbe sta boiata degli stati generali? Alla fine sceglie sempre uno e il suo esercito nascosto, in pratica se la cantano è se la suonano da soli  :facepalm:

 
Per i motivi più disparati ho avuto a che fare con studenti e laureati da diversi Stati d'Europa e dagli Stati Uniti e non mi sono sembrati dei fulmini di guerra. Ovviamente ci sono tutti i tipi di distorsione possibili e immaginabili, eh. Secondo me, però, molti dicendo "la scuola non ti prepara al lavoro" intendono "la scuola non ti trova lavoro". 

 
Ma cosa sarebbe sta boiata degli stati generali?
un puerile tentativo di Conte di far credere all'opinione pubblica che i pareri diversi dal suo e dei suoi espertoni verranno tenuti in considerazione. E' una strategia che ha sempre usato anche con le opposizioni,  imbeccato dal suo mandante Mattarella . Ossia "pubblicamente professa dialogo e collaborazione, poi spegni i riflettori e fai come ti pare"

 
Sisi ma l’universita non è che ti prepara al mondo del lavoro. Per non parlare delle scuole superiori, apparte quelle professionali 
La scuola non deve preparare al "mondo del lavoro". La scuola deve preparare alla vita. Chi è pronto alla vita, sarà poi pronto anche a lavorare. Questo, attenzione, vale tanto più quando, come oggi, il lavoro non c'è: perché se il lavoro non c'è devi inventarlo, e se sei stato programmato per fare l'utile idiota esecutore passivo di compiti meramente tecnici, è difficile che tu sia in grado di mettere a frutto la tua creatività, la tua scintilla di umanità. Quindi la retorica del "prepariamo al lavoro perché non c'è lavoro" è intrinsecamente fallace, come dimostra il fatto che la si realizza distruggendo il lavoro degli insegnanti.

La scuola deve aprire orizzonti culturali, che significa, poi, dare chiavi interpretative della realtà, aiutare a leggere (cominciando dai libri e dalle carte geografiche), aiutare a pensare (cominciando dall'analisi logica, e arrivando, magari, alla logica), aiutare quindi a conoscere per deliberare, aiutare a organizzare il mondo.

Oh, quanto erano utili a questo scopo i fottuti libri senza figure! L'antitesi di questo posticcio e fittizio conato verso un sapere pratico che nel migliore dei casi sarà obsoleto il giorno del diploma, e nel peggiore è obsoleto già oggi!

Oh, quanto inutilmente devastante è questo ennesimo facciamocome! Facciamo come la Germagna, che ha anche lei l'anternanza scuola lavoro! Certo! Ma in Germagna, come in Francia, è all'esame di scuola media che si decide se lo studente andrà all'università, e spesso anche in quale (di quale livello e orientamento). Vi sembra un sistema auspicabile? E allora potevamo tenerci l'avviamento! Se lo abbiamo eliminato, peraltro in pieno boom economico, e prima del fatidico 1968, ci sarà stato un perché!

E questo senza contare che la vita è una, le ore sono quelle, e quindi l'alternanza scuola-lavoro è, in pratica, la devastazione del tempo naturaliter destinato all'insegnamento, con la necessità, per gli insegnanti, di correre come delle lepri, e l'impossibilità, per gli studenti, di recuperare in caso rimangano indietro.
L'eccellenza dell'istruzione italiana (quello che ne rimane) in ambito scientifico, accademico e lavorativo è inconfutabile. La grande richiesta di italiani all'estero lo prova. Il problema della scuola italiana, dopo i tagli e il sotto-finanziamento, è (lo dimostri denigrando il sistema che ti ha formato) quello che diceva Audiosculpt:

Se però dalle scuole continua ad uscire gente con il complesso d'inferiorità 
Complesso d'inferiorità che secondo me applichi solo agli altri ("tutti=tutti-io").

Dimmi, ti consideri uno che "sa fare poco e un cazzo" e che "non ha la minima idea di come funzioni il mondo", riprendendo le tue gentili parole?

Se la risposta è affermativa cercherei di lavorare di più sulla tua autostima e sulla tua formazione; se la risposta è negativa ti inviterei ad essere meno ipocrita.

L'alternanza scuola lavoro e proposte ad essa complementari servono a distruggere dalle fondamenta il luogo principe per la formazione del pensiero. Servono a deprivare i lavoratori della cultura e della capacità di pensare oltre le formulette imparate a memoria su un libro. Servono a renderci degli automi privi di identità culturale (dopo aver attentato a quella nazionale) da impiegare come manodopera da sfruttare, come ogni tanto lamenti su queste pagine. 

Il partito democratico, nella sua costante campagna per la distruzione della società e di ogni benessere, materiale o immateriale, questo tema che ti sta tanto caro lo porta avanti (realizzandolo anche, con quello schifo della "buona" scuola). Perché un partito che promuove disoccupazione e deflazione salariale dovrebbe puntare a formare gli studenti per il loro bene in quanto futuri lavoratori? Pensaci.

 
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Va beh e quindi vi pare che la scuola prepari alla vita?  

Esci dalle superiori che non sai ancora come ti chiami.  Bello il liceo, lo rifarei, però è tutta cultura e apertura mentale che servirà UN GIORNO per aprimi a nuove strade. 

Ma vi pare normale che appena io esco dalle superiori, devo fare l’universita e pur facendo l’universita devo inventarmi un lavoro per lavorare?  

Cioe per guadagnare due lire devo già aver messo in moto la mia creatività ai massimi livelli?  

Avercene di gente colta, ma se appena uscito dalle superiori mi sale la depressione ai massimi livelli perché non riesco a trovare un banale lavoro c’e qualcosa che non quadra. 

Cioe ti sembra normale che per lavorare molti devono fare 5 anni di università e quindi cominciare a lavorare a 25 anni? 

 
Ultima modifica da un moderatore:
Tu ti stai lamentando della quantità di lavoro di disponibile e non della qualità dell'istruzione. E non siete cosa cazzo fare di lavoro quando si finisce la scuola, in un sistema capitalista, sì, è normale.

 
Per i motivi più disparati ho avuto a che fare con studenti e laureati da diversi Stati d'Europa e dagli Stati Uniti e non mi sono sembrati dei fulmini di guerra. Ovviamente ci sono tutti i tipi di distorsione possibili e immaginabili, eh. Secondo me, però, molti dicendo "la scuola non ti prepara al lavoro" intendono "la scuola non ti trova lavoro". 
Diciamo che in Italia ci sono facoltà ingolfate di teoria dove un po' di pratica in più non guasterebbe.

Il fatto che la scuola pubblica italiana sia migliore di molte altre (private e pubbliche) non significa che non possa e non debba essere migliorata.

Va beh e quindi vi pare che la scuola prepari alla vita?  

Esci dalle superiori che non sai ancora come ti chiami.  Bello il liceo, lo rifarei, però è tutta cultura e apertura mentale che servirà UN GIORNO per aprimi a nuove strade. 

Ma vi pare normale che appena io esco dalle superiori, devo fare l’universita e pur facendo l’universita devo inventarmi un lavoro per lavorare?  

Cioe per guadagnare due lire devo già aver messo in moto la mia creatività ai massimi livelli?  

Avercene di gente colta, ma se appena uscito dalle superiori mi sale la depressione ai massimi livelli perché non riesco a trovare un banale lavoro c’e qualcosa che non quadra. 

Cioe ti sembra normale che per lavorare molti devono fare 5 anni di università e quindi cominciare a lavorare a 25 anni? 
Io esco dalla primissima versione di Liceo Musicale: la sperimentazione di questo indirizzo iniziò con la mia classe.

Mi ha preparato al lavoro che svolgo oggi? no. Mi ha dato un vantaggio competitivo notevole rispetto a chiunque altro? Cazzo, si.

Sono uscito dal liceo, ho fatto ingegneria del suono, ho iniziato a lavorare come tecnico del suono, ho perso il lavoro a causa della crisi, disperato ho fatto l'assicuratore per un anno, ho studiato ed ho fatto il consulente finanziario indipendente ed oggi gestisco...un mcdonald e sono tornato all'università per laurearmi in economia.

Per anni ho insultato me stesso per aver scelto quel liceo e per i 10 anni passati in Conservatorio. Oggi ho capito che quello che sembrava tempo perso mi ha dato un vantaggio competitivo non indifferente.

Non è che la scuola non ti prepara al lavoro: in parte il lavoro non c'è (grosso del problema) ed in parte sei tu che non hai ancora capito come usare ciò che hai imparato.

Sottoscrivo ciò che ha scritto Cart.

La maggior parte degli studenti esteri sono fatti con lo stampino: escono che sanno tutti arrivare dal punto A al punto B ma facendo esattamente la stessa identica strada.

Nel mondo di oggi, questo, è un limite: ecco perché vedi aziende estere che vengono nelle università italiane a fare incetta di laureandi e per le aziende italiane è difficile competere con i salari che ti danno all'estero (sopratutto UK, Irlanda e Germania).

 
Diciamo che in Italia ci sono facoltà ingolfate di teoria dove un po' di pratica in più non guasterebbe.

Il fatto che la scuola pubblica italiana sia migliore di molte altre (private e pubbliche) non significa che non possa e non debba essere migliorata.

Io esco dalla primissima versione di Liceo Musicale: la sperimentazione di questo indirizzo iniziò con la mia classe.

Mi ha preparato al lavoro che svolgo oggi? no. Mi ha dato un vantaggio competitivo notevole rispetto a chiunque altro? Cazzo, si.

Sono uscito dal liceo, ho fatto ingegneria del suono, ho iniziato a lavorare come tecnico del suono, ho perso il lavoro a causa della crisi, disperato ho fatto l'assicuratore per un anno, ho studiato ed ho fatto il consulente finanziario indipendente ed oggi gestisco...un mcdonald e sono tornato all'università per laurearmi in economia.

Per anni ho insultato me stesso per aver scelto quel liceo e per i 10 anni passati in Conservatorio. Oggi ho capito che quello che sembrava tempo perso mi ha dato un vantaggio competitivo non indifferente.

Non è che la scuola non ti prepara al lavoro: in parte il lavoro non c'è (grosso del problema) ed in parte sei tu che non hai ancora capito come usare ciò che hai imparato.

Sottoscrivo ciò che ha scritto Cart.

La maggior parte degli studenti esteri sono fatti con lo stampino: escono che sanno tutti arrivare dal punto A al punto B ma facendo esattamente la stessa identica strada.

Nel mondo di oggi, questo, è un limite: ecco perché vedi aziende estere che vengono nelle università italiane a fare incetta di laureandi e per le aziende italiane è difficile competere con i salari che ti danno all'estero (sopratutto UK, Irlanda e Germania).
Si va beh adesso i geni ci sono solo in Italia. Va beh sarà. 

E comunque non ho capito che vantaggio ti ha dato il liceo musicale se non la cultura 

Tu ti stai lamentando della quantità di lavoro di disponibile e non della qualità dell'istruzione. E non siete cosa cazzo fare di lavoro quando si finisce la scuola, in un sistema capitalista, sì, è normale.
Sarà pure normale ma

io ho parenti che vivono in tutto il mondo, zii e cugini più grandi di me, che non hanno avuto questi grossi problemi. Sarà stato un caso. 

 
Si va beh adesso i geni ci sono solo in Italia. Va beh sarà. 

E comunque non ho capito che vantaggio ti ha dato il liceo musicale se non la cultura 

Sarà pure normale ma

io ho parenti che vivono in tutto il mondo, zii e cugini più grandi di me, che non hanno avuto questi grossi problemi. Sarà stato un caso. 
No, non è caso. Dipende da tanti fattori. Comunque, se ti aspetti uno scenario dove si finisce la scuola e trovi immediatamente lavoro indipendentemente da qualsiasi cosa, in un sistema capitalista hai fatto stramale i tuoi conti.

 
No, non è caso. Dipende da tanti fattori. Comunque, se ti aspetti uno scenario dove si finisce la scuola e trovi immediatamente lavoro indipendentemente da qualsiasi cosa, in un sistema capitalista hai fatto stramale i tuoi conti.
Ok non dico che il lavoro lo trovi di sicuro, al 100% ,  però mi aspetterei di avere buone possibilità 

 
Ok non dico che il lavoro lo trovi di sicuro, al 100% ,  però mi aspetterei di avere buone possibilità 
Le probabilità di trovare lavoro dipendono dalla disoccupazione che dipende, a sua volta, dai salari. E indovina chi fa la politica salariale. Indizio: non è lo Stato. 

Che poi è abbastanza intuitivo, direi: c'è un posto di lavoro e 100 disoccupati. Uno di questi viene assunto e altri 99 no. Possibile che gli altri 99 fossero tutti scemi e/o non preparati dalla scuola? 

Ma, onestamente, perché non si può semplicemente prendere atto che con l'attuale modello economico l'unico equilibrio stabile è quello con alta disoccupazione e salari bassi indipendentemente da qualsiasi tipo di merito? Fa rosicare così tanto il fatto che vada letteralmente a culo? 

 
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Si va beh adesso i geni ci sono solo in Italia. Va beh sarà. 

E comunque non ho capito che vantaggio ti ha dato il liceo musicale se non la cultura 
Ci sono pletore di studi che dimostrano come lo studio della musica sia fondamentale nella crescita di ciascuno di noi.
Sopratutto nei primi anni di vita, lo studio di musica e matematica (attraverso il gioco ovviamente) prepara il cervello non solo ad immagazzinare più informazioni ma ad elaborarle più velocemente nonché creare più connessioni.

Non è un caso che i cinesi (ma anche i coreani) la prima cosa che hanno importato (dall'Italia, guarda un po') sono stati i nostri diplomati di conservatorio da piazzare nelle loro scuole così come non è un caso che in Germania lo studio della musica sia una parte fondamentale del percorso scolastico.

E comunque non capisco il "disprezzo" per la cultura: spero di aver mal interpretato perché  la frase "che vantaggio ti ha dato il liceo musicale se non la cultura" fa rabbrividire.

Per la serie "cazzo tene di studiare Schopenhauer?  Meglio pancia piena e testa vuota che il contrario".

 
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