In another country – Hong Sang-soo, 2012. Il primo episodio è adorabile; i successivi non aggiungono molto, e anzi soffrono di una marcata ridondanza e ripetitività. Ho trovato abbastanza debole il filo narrativo che lega i tre episodi: utile per spiegare le regole del gioco, ma forse si poteva pensare qualche altra soluzione più interessante? O forse il gioco in sé non lo era particolarmente? Inizialmente l'idea di un film dell'est asiatico con protagonista europea mi faceva temere per il peggio, ma per fortuna devo dire che la scrittura riesce a valorizzare appieno questo elemento, sfruttandolo sia in senso comico che, più sottilmente, per restituire un senso di isolamento – isolamento che può essere vissuto in modi diversi modi, dalla frustrazione dovuta a una comunicazione limitata, a un più pacifico senso di riservatezza e indipendenza. Ho amato il modo in cui abbraccia il cringe di certe conversazioni di circostanza in Inglese in contesti internazionali. Nel complesso una visione piacevole, grazie soprattutto al brillante primo episodio che ha i migliori momenti e tutti i migliori personaggi, oltre che banalmente una maggior freschezza – e che avrebbe funzionato perfettamente anche per conto suo, e anzi a mio parere ne avrebbe giovato.
Le quattro volte – Michelangelo Frammartino, 2010. Ok
Contes immoraux – Walerian Borowczyk, 1973. Come valutarlo? Nonostante numerosi passi falsi, e certe tendenze decisamente problematiche per motivi completamente diversi oggi rispetto al periodo di pubblicazione, devo ammettere che, per quello che vuole essere, è eccellentemente realizzato e non privo di un suo certo fascino sia pur platealmente e letteralmente perverso. Solo l'ultimo episodio va troppo oltre per la mia sensibilità, ma suppongo dipenda da persona a persona. Particolarmente apprezzabile la varietà stilistica nel mettere in scena storie ambientate in cinque secoli diversi, e ogni volta in maniera convincente ed esteticamente coerente.
Chocolat – Claire Denis, 1988. Solo apparentemente semplice, è in realtà una delle migliori rappresentazioni del colonialismo che abbia visto su schermo, e non solo – della languida buffonata che, quasi per definizione, è, e dei diversi tipi di umiliazione a cui intrinsecamente costringe non la popolazione autoctona, ma anche i colonizzatori stessi. Ho la netta sensazione che questo film sia stato un riferimento importante per La folie Almayer di Akerman, altra indimenticabile rappresentazione della vanità coloniale che comunque ritengo non all'altezza di questa di Denis. Rappresentato con colori vibranti e magnifici silenzi, ma carico di angoscia e amarezza appena sotto la superficie. La sceneggiatura è calibrata alla perfezione, e la prospettiva infantile utilizzata in modo significativo e mai banale. Alcuni passaggi non chiaramente interpretabili potrebbero disturbare, ma ho trovato che riuscissero comunque almeno strumentali nel rappresentare la fondamentale incomprensibilità dell'altro nel contesto coloniale. La malinconica bellezza di Boschi è splendida e semplicemente perfetta per il film.