Nel caso potesse interessare a qualcuno anche quest'anno contro ogni pronostico son riuscito a fare un salto a Venezia, quattro giorni vissuti un po' di fretta ma più che soddisfacenti dal punto di vista cinefilo. Non siamo ai livelli di due anni fa (che per me fu praticamente un all-star di autori e titoli) ma decisamente più interessante dell'edizione scorsa, poco memorabile almeno nella mia esperienza. Festival che comincia a farsi un po' stretto per il pubblico, con un'affluenza apparentemente in continuo aumento: tante code per praticamente qualunque servizio, che sia la biglietteria o la caffetteria o il bagno o addirittura la fontanella, con centinaia di accreditati tagliati fuori da più o meno qualsiasi proiezione che non fosse a loro specificatamente riservata. Il tutto reso particolarmente odioso da un caldo decisamente più intenso che nei due anni scorsi, con un sole implacabile dalle nove di mattina alle sette di sera. A mio parere sarebbe ora di limitare il numero di accrediti disponibili, e/o di aumentare il numero di proiezioni (alcune sale rimangono inutilizzate la mattina, e altre addirittura ospitano soltanto una o due proiezioni al giorno) e/o di aumentare la sinergia con le sale di Venezia, che anche quest'anno può vantare il solo eroico Rossini per le seconde visioni: sarebbe opportuno avere perlomeno un altro cinema aperto e/o aprire anche la mattina, così da estendere la programmazione su tutta la giornata e non solo ai film presentati il giorno immediatamente precedente, ma anche a due giorni. In questo modo a mio parere si potrebbe dare una valvola di sfogo praticabile per il traffico del Lido, nonché offrire agli spettatori una seconda possibilità per recuperare qualche proiezione persa per strada.
Dal punto di vista della qualità dei titoli proposti sono rimasto positivamente sorpreso: sarà che avevo aspettative molto basse, con il solo Gray ad interessarmi veramente, ma comunque ho trovato soddisfazione anche in titoli e autori che non conoscevo o da cui mi aspettavo pochino. Non sono riuscito a vedere tutti i film che avrei voluto (molte proiezioni andavano misteriosamente esaurite circa istantaneamente dall'inizio delle vendite) ma l'unico vero rimpianto è stato perdermi Polanski, non tanto perché mi interessasse quanto perché se ne è parlato tanto, e al Lido stare al passo con le voci che corrono è di per se una parte del gioco. Ma quella sera non ne avevo voglia e son tornato a casa lol
Insomma ecco un riassuntone delle mie visioni veneziane, (due) classici compresi. Non so se qualcuno legga ancora qui dentro ma se non altro serve a me per riordinare le idee dopo quattro giorni di in cui non ho quasi avuto il tempo di pensare.
Marriage story, di Noah Baumbach. In concorso. Molto bello, riuscito sia nella sua componente più comica che in quella drammatica, quest’ultima grazie anche e soprattutto alle magnifiche interpretazioni di Driver e Johansson. Echi bergmaniani in uno studio di un amore che muore sotto lo sguardo attonito della coppia stessa, quasi spettatrice di se stessa. Dichiaratamente autobiografico, non raggiunge la grandezza ma sa colpire più volte e con forza.
Ad astra, di James Gray. In concorso. Film di gran lunga più atteso della mostra per me, e parziale delusione. Dal punto di vista tecnico-immaginifico è quanto di meglio la fantascienza abbia offerto nell’ultimo decennio (evidente il debito nei confronti dei vari Gravity, Interstellar, finalmente però superati da una mano autoriale capace di far davvero brillare il genere), con una progressione spaziale-narrativa e un world building più da romanzo che da film. Manca però la sceneggiatura, la cui componente drammatica è sostanzialmente relegata ai monologhi interiori simil-malickiani di Pitt e che risulta decisamente deludente nel tirare le fila del discorso. Insomma non è il Gray che amo, quello capace di prendere storie al limite dell’archetipo e di farne esplodere tuttta la potenza drammatica semplicemente attraverso l’intreccio e i rapporti fra i suoi personaggi.
The kingmaker, di Lauren Greenfield. Fuori concorso. Quarant’anni di storia delle Filippine attraverso il ritratto della ex-first lady Imelda Marcos, affascinante personaggio indecifrabilmente oscillante fra un'ingenuità patetica e un raggelante cinismo, fra plateale idiozia e genio politico. Documentario estremamente interessante per chi come me fosse quasi completamente all’oscuro della storia del paese, e capace di porla in rapporto allo scenario internazionale sia passato che presente. Forse non perfetto il montaggio, con qualche ridondanza e qualche salto in avanti e indietro di troppo; ma ben realizzato e ricco di un soggetto fortissimo.
Un mond plus grand, di Fabienne Berthaud. Giornate degli autori. Ogni scena è mediocre.
The incredible shrinking man (1957), di Jack Arnold. Venezia classici. Irresistibile fantascienza old-school, semplicissimo nella premessa (sta letteralmente nel titolo) ma pieno di idee narrative e registiche, ritmato perfettamente e addirittura sorprendente in certi sviluppi. Effetti speciali di una pulizia stupefacente. Una piacevolissima scoperta. Bonus: il titolo italiano è Radiazioni BX: Distruzione uomo. Provate voi a far meglio di così.
Citizen K, di Alex Gibney. Fuori concorso. Fa un interessante paio con The kingmaker: anche qui abbiamo un personaggio affascinante e controverso, l’ex oligarca russo Mikhail Khodorkovsky, attraverso il cui ritratto vengono letti gli ultimi decenni della storia di un paese, in questo caso la Russia dalla liberazione dal comunismo sovietico alla dittatura putiniana. Data la storia personale di Khodorkovsky (incastrato e incarcerato per quasi 10 anni da Putin, quindi rilasciato ma di fatto esiliato) e il suo grado di coinvolgimento nella realizzazione del film stesso la narrazione assume un tratto smaccatamente anti-putiniano, con l’evidente rischio di trasformarsi in un’agiografia o peggio, in un’operazione di propaganda. Ho trovato però intellettualmente onesta la regia di Gibney, che attraverso un estensivo lavoro di contestualizzazione storica fornisce allo spettatore tutte le informazioni necessarie a farsi un’opinione sugli eventi rappresentati al di là della rappresentazione stessa, facendo anche emergere le ambiguità e le contraddizioni di Khodorkovsky stesso e del suo ruolo nella storia recente russa. Indubbiamente schierato, ma indubbiamente necessario in una fase storica in cui il putinismo sembra dilagare in tutto l’Occidente e non solo.
Ema, di Pablo Larraìn. In concorso. Larraìn abbandona per una volta la sua estetica del controluce e confeziona un’esperienza sensoriale a tratti totalizzante, dalla fotografia, alle coreografie, ai vestiti, agli interpreti stessi, alla musica – soprattutto alla musica. (Per la cronaca, colonna sonora pazzeska di Nicolas Jaar e una sbalorditiva De Girolamo che recita e balla da dio). C’è qualche barlume del Korine di Spring breakers, pur mancandone l’ineffabile sottigliezza. Perché sì, a tratti Larraìn riesce a incanalare tutte le componenti della sua opera in una celebrazione/condanna dell’anarchia, dell’auto-affermazione contro tutto e contro tutti, della soddisfazione immediata delle più sfrenate pulsioni, ma per la maggior parte del film la sceneggiatura è… strana? Se non si trattasse di Larraìn forse si parlerebbe a cuor leggero di disastro, con personaggi che sono enormi punti ciechi, relazioni e conflitti insondabili e un intreccio che in un surreale colpo di scena finale si rivela stupefacentemente e inspiegabilmente machiavellico, il tutto condito con supercut di scene di sesso di un esibizionismo sostanzialmente fine a se stesso (non che ci lamentiamo) e immerso in un discorso sulla genitorialità (?) francamente quasi incomprensibile, almeno alla prima visione. Ma mi è piaciuto anche così, rotto e strano e bellissimo, con vette di pura sublimazione audiovisiva.
Joker, di Todd Phillips. In concorso. Diciamo che pure questo fa una strana coppia con Ema, per il suo approccio al contempo viscerale e superficiale all’anarchia, al livore cieco verso “i rikkih” e l’ordine costituito. Ed è una superficialità pericolosa, perché il Joker di Phillips è poco più che un condensato di tic e di frasi fatte alla We live in a society/Condividi se sei indignato in cui gli sceneggiatori sembrano addirittura credere, banalizzando i conflitti sociali rappresentati e rendendoli di fatto semplicemente strumentali alla mitizzazione del personaggio agli occhi dello spettatore medio. Non voglio dire che sia totalmente apologetico, lo squilibrio mentale del protagonista è messo fin troppo in chiaro (se si mettessero una dietro l’altra le risate di Phoenix credo si andrebbe tranquillamente oltre i dieci minuti di film), ma è evidente che il regista era talmente innamorato del personaggio che anche questi aspetti si appiattiscono quasi completamente sul fan service, della serie Guardate quanto è paxxo il Joker, e di fatto rendendolo innocuo se non addirittura contribuendone all'esaltazione. È un film molto ridondante e didascalico nella progressione, con una linea narrativa principale che continua a ripetere le stesse situazioni e gli stessi slogan dall’inizio alla fine, e un paio di altre totalmente sconclusionate (clamoroso il doppio colpo di scena sulla famiglia del futuro Joker). È un film molto derivativo e prevedibile (fondamentalmente, una linea retta dal punto A al punto B con in mezzo cliché) tranne in alcuni casi in cui si infila in un vicolo cieco e se ne esce con palesi forzature. È un film tecnicamente ben girato, con una fotografia purtroppo banalizzata da un utilizzo oserei dire ossessivo del teal&orange (seriamente, nove inquadrature su dieci sono praticamente bicromatiche). È un film medio con pretese autoriali velleitarie infarcito di retorica anarco-populista spicciola, tutto sommato non sgradevole da seguire ma inquietante per la superficialità (direi cinismo, ma ho la sensazione che gli sceneggiatori ne fossero sinceramente convinti) con cui edulcora certi temi per il pubblico di massa.
Seules les bêtes, di Dominik Moll. Giornate degli autori. Molto carino, una storia a incastri che dopo un inizio sinceramente da sbadigli (temevo l’ennesima commedia nera da cinema francese medio) si fa inaspettatamente gradevole da seguire e a tratti sinceramente divertente nei suoi improbabilissimi sviluppi.
Out of the blue (1980), di Dennis Hopper. Venezia classici. Sezione quest’anno deludente nei nomi ma proprio per questo sorprendente nella qualità dei titoli proposti. Un distillato del cinema indipendente che amo, se non addirittura uno dei pilastri fondamentali per tutto il macro-genere dei quindici-venti anni successivi (lo stesso Blue velvet potrebbe benissimo esserne debitore). Novanta minuti di vagabondaggio nella profonda periferia americana, aggrappandosi all’illusione della libertà in una realtà claustrofobica. Perfetti Manz e lo stesso Hopper, in un ruolo che in certi suoi aspetti è chiaramente il predecessore spirituale di Frank Booth. Bellissimo. E anche quest’anno il festival si chiude per me con una piacevolissima sorpresa.