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Aldilà di tutto il resto, fare esempi di debito privato quando si parla di debito pubblico è una cosa senza senso.
Quindi stai dicendo che il fatto che negli anni '80 si abbia vissuto al di sopra delle proprie possibilità non abbia aggravato la situazione in cui ci troviamo oggi? Perché credo si stesse parlando di questo :hmm:

(Non è una domanda retorica o provocatoria) 

 
Quindi stai dicendo che il fatto che negli anni '80 si abbia vissuto al di sopra delle proprie possibilità non abbia aggravato la situazione in cui ci troviamo oggi? Perché credo si stesse parlando di questo :hmm:

(Non è una domanda retorica o provocatoria) 
C'è un problema di fondo in questa domanda: negli anni '80 si è vissuto al di sopra delle proprie possibilità? Tu dai per assodato di sì, la mia risposta invece è no.

 
Ma a cascata colpisce tutti quanti quelli che - al contrario di Paul De Grauwe - non hanno modo di ripararsi dalla durezza del vivere. Anche chi ha un reddito medio-alto rischia di non vedersela tanto bene se il suo benessere proviene da attività che non sono garantite come la prestigiosa cattedra del nostro amico belga (che ci redarguisce perché non vogliamo accettare di diventare più poveri)
Ti giuro che, non conoscendo Paul De Grauwe, ieri ero andato a leggere l'articolo, ma l'avevo letto con toni totalmente differenti. Se noti bene, tutte le riforme che secondo lui l'Italia dovrebbe fare sono in ottica di rimanere nell'euro e lo dice talmente tante volte che mi sembrava chiaro volesse dirlo come critica: a un italiano qualunque, che gli "frega" se ha l'euro, la lira o i sesterzi. Magari vuole sapere cosa fare per rilanciare l'economica, trovare un lavoro, mandare il figlio all'università, ma non è che la sua croce domattina è sapere se ha l'euro o la lira, anche perché molto probabilmente non ha le competenze per vederne le dirette conseguenze. Non so se mi sono spiegato.

:sard:

Comunque quelli di Immuni hanno fatto un AMA su Reddit, se a qualcuno interessa:



 
C'è un problema di fondo in questa domanda: negli anni '80 si è vissuto al di sopra delle proprie possibilità? Tu dai per assodato di sì, la mia risposta invece è no.
No, non do per assodato che sia così per partito preso, ma perché so che viene detto da gente che so per certo ne sappia più di me (non che ci voglia troppo, quando si parla di economia e di "storia" dell'economia) 

 
C'è un problema di fondo in questa domanda: negli anni '80 si è vissuto al di sopra delle proprie possibilità? Tu dai per assodato di sì, la mia risposta invece è no.
In realtà, la cosa divertente è che chi sostiene che negli anni '80 abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, evidentemente, mette in luce la necessità di uscire dall'unione valutaria e di rimettere la BdI sotto l'esecutivo. Posto che a me il "abbiamo vissuto al di là delle nostre possibilità" suona come un "tutti = tutti meno io": sono gli altri che dovevano crepare con le pezze al culo, mica io o i miei genitori.

 
Quindi stai dicendo che il fatto che negli anni '80 si abbia vissuto al di sopra delle proprie possibilità non abbia aggravato la situazione in cui ci troviamo oggi? Perché credo si stesse parlando di questo :hmm:

(Non è una domanda retorica o provocatoria) 
Negli anni 80 il debito pubblico è esploso non per quello che credi tu o che cercano di inculcarvi perché fa comodo alla propaganda (stesso metodo usato per la Grecia di far sentire le persone colpevoli) ma per un singolo episodio accaduto nel 1981, ovvero la separazione tra Tesoro e Banca d'Italia fatta per permettere all'Italia di entrare nello SME.



 
Comunque che ne pensate degli stati generali? 

A me paiono una baracconata. 

 
Tu però mi hai preso in esame gli anni della crisi economica che ha affossato tutti
Eh. Gli shock esterni in un'area valutaria non ottimale si scaricano completamente sul mercato del lavoro, perché non è più possibile per gli stati membri recuperare competitività svalutando la propria moneta. Le crisi mostrano in tutta la loro evidenza quando l'unione monetaria sia dannosa. Quella distruzione di ricchezza e l'aumento della povertà che si osservano nei grafici di Banca d'Italia sono frutto dell'euro: la crisi è stata solo la miccia.

mi paragoni gli anni attuali con gli anni '80 dove la ricchezza era data dal debito pubblico che cresceva, cosa di cui noi ora paghiamo le conseguenze
Non paghiamo alcuna conseguenza per il nostro debito. Continui inesorabile a ripetere luoghi comuni. Economicamente non esiste un limite oltre il quale il debito pubblico diventi insostenibile o possa compromettere la crescita economica (il Giappone che ha dato i natali alla tua serie preferita, presumo, ha un debito pubblico al 236% del PIL, con zero fucks given). Coloro che hanno sostenuto questo in ambito accademico, producendo un paper che ha influenzato direttamente le decisioni delle classi politiche negli ultimi anni, sono stati umiliati da uno studente, che ha dimostrato limpidamente come il loro lavoro fosse profondamente viziato, sostanzialmente una cazzata galattica:

This week, economists have been astonished to find that a famous academic paper often used to make the case for austerity cuts contains major errors. Another surprise is that the mistakes, by two eminent Harvard professors, were spotted by a student doing his homework.

https://www.bbc.com/news/magazine-22223190
Il fatto che la sfera decisionale della politica sia stata così influenzata in modo così pesante da uno studio debole e inficiato da errori metodologici, ha portato l'economista di PrincetonPaul Krugman, vincitore del premio Nobel per l'economia, a esprimersi in questo modo[6]:


«Quello che ci insegna il caso dello studio Reinhart-Rogoff è fino a che punto l'austerity è stata spacciata servendosi di falsi pretesti. Per tre anni, l'adozione di politiche di austerity è stata presentata non come una scelta ma come una necessità. Secondo i suoi sostenitori, era la ricerca economica ad aver mostrare come eventi terribili succedano ogni volta che il debito superi il 90 per cento del PIL. Ma la "ricerca economica" non ha affatto mostrato cose del genere; è stata una coppia di economisti a sostenere quell'asserzione, mentre molti altri dissentivano. I decisori delle policy hanno abbandonato i disoccupati e si sono rivolti all'austerity per scelta, non perché vi fossero costretti.»

https://it.wikipedia.org/wiki/Growth_in_a_Time_of_Debt


Questa tesi è una hoax, una truffa per impoverirci, per produrre quello che sappiamo tutti leggendo i giornali: aumento della disuguaglianza a vantaggio dell'1%.

("Se mi compro la Ferrari oggi, mio figlio fra vent'anni pagherà ancora i debiti, e io che faccio, fra 20 anni mi ricorderò quanto era bello avere la Ferrari?").
Uno stato non è una famiglia e un debito è anche un credito (ricchezza privata). Se oggi ti comprassi una casa, facendo questo orribile debito che è il fondamento del sistema capitalistico, fra 20 anni tuo figlio avrà un tetto sulla testa, come ne hanno tanti italiani grazie ai loro genitori e ai loro nonni (che lo hanno fatto indebitandosi per ben più del 130% del loro reddito annuo). Uno stato che spende per i propri cittadini sta costruendo il loro futuro, non sta creando un fardello sulle future generazioni. Che se sopravvivono, lo devono tutto alla ricchezza creata dal lavoro dei loro parenti grazie a questo debito , che comunque ti ricordo, è cresciuto per via del divorzio, come già ti dissi e come ti ha ribadito Akhir. Libero poi di credere che sia meglio avere poco debito piuttosto che benessere, come l'Afghanistan e il suo 7% di debito pubblico.

ma se oggi tornassimo alla liretta, nessuno investirebbe su di noi, e piuttosto che i titoli italiani, i risparmiatori si comprerebbero i titoli di altre nazioni. Pure il Regno Unito non se l'è passata benissimo, una volta uscita dall'unione, ed è il Regno Unito. 
No. E il Regno unito sta molto meglio di noi.

Hai ragione, c'è proprio un'infinità di risparmiatori che non vede l'ora che l'Italia esca dall'unione per comprare i titoli di stato :sisi:
Non noti il controsenso nel tuo modo di ragionare?

Scrivi che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità facendo il debito pubblico monstre degli anni '80, ma poi ci suggerisci che fuori dall'euro il nostro debito non lo comprerebbe nessuno (come non comprano i titoli inglesi, svizzeri, svedesi, norvegesi; poracci loro). Al che mi chiedo: come siamo riusciti ad indebitarci così tanto con tutti i risparmiatori che ci schifavano? Ancora meglio: come faranno mai a sopravvivere fuori dalle quattro mura europee, mancando dell'eurone o di unioni monetarie analoghe?

Parlate sempre dell'euro in termini tali da dar l'idea che nel resto del globo ci sia solo barbarie e povertà assoluta, quando la normalità nel mondo è proprio avere una moneta sovrana, come l'aveva una volta l'Italia, quando diventò una delle prime sette nazioni economicamente avanzate del mondo.

 
Ultima modifica:
In realtà, comunque, l'euro, in quanto mezzo, è un grosso distrattore di massa rispetto al fine, ossia la lotta di classe del capitale contro il lavoro. 

È stata accennata anche ieri: la tendenza al peggioramento della quota salari è mondiale e va avanti da molto prima dell'euro. 

Uscire dall'euro è la condizione necessaria non sufficiente e ok ma, comunque, voler uscire dall'euro e voler continuare con il sistema capitalista significa sperare che un po' meno lavoratori lo prendano in culo, che l'inculatura sia un po' meno profonda e, soprattutto, di capitare fra i lavoratori che subiscono il trattamento un po' meno violento. Una versione più elaborata di "basta che sto bene io, che me ne frega a me", fondamentalmente.

 
Ultima modifica da un moderatore:
Gli shock esterni in un'area valutaria non ottimale si scaricano completamente sul mercato del lavoro, perché non è più possibile per gli stati membri recuperare competitività svalutando la propria moneta. Le crisi mostrano in tutta la loro evidenza quando l'unione monetaria sia dannosa. Quella distruzione di ricchezza e l'aumento della povertà che si osservano nei grafici di Banca d'Italia sono frutto dell'euro: la crisi è stata solo la miccia.
Leggendo questo passaggio mi è venuta una domanda: quando è che l'unione monetaria diventa economicamente un problema? O meglio, perché in Europa costituisce un problema mentre in USA (50 stati) o in un eventuale Italexit (20 regioni) non è/sarebbe un problema?

Non mi sto riferendo in particolare a questa Europa o a questo Euro, mi piacerebbe proprio capire quali sono le dinamiche politiche ed economiche; per esempio mi sembra evidente che l'Europa non è assolutamente una unione amministrativa che può essere comparata nella struttura ad una unione di stati (USA) o di regioni (Italia); o ancora, vedo una mancanza di accentramento in dinamiche legate, ad esempio, al mondo del lavoro, della sanità, della scuola che insomma non ci rende gli Stati Uniti d'Europa. In tutto questo però vorrei fare una po' una quadra e chiedo aiuto a chi ne sa più di me.

Domanda aperta a tutti, non ironica, non provocatoria!

 
Il punto di vista di dante3vergil non è sbagliato come si suol credere. Io sono capitalista pertanto lo condivido. E' grave e sbagliato che lo sostengano le persone che conducono una vita dignitosa con uno stipendio medio che oramai rasenta cifre ridicole. Nessuno ha mai vissuto al di là delle proprie possibilità eccetto chi sfrutta gli altri e le risorse del pianeta terra. Prima o poi comunque tutti i nodi verranno al pettine e vedremo se i grandi capitali eviteranno qualche strage. Non capiterà alla nostra generazione ma non punterei sul win anche per i prossimi cinquant'anni. E' triste da dire ma non è una minaccia. Semplice storia.

 
Leggendo questo passaggio mi è venuta una domanda: quando è che l'unione monetaria diventa economicamente un problema? O meglio, perché in Europa costituisce un problema mentre in USA (50 stati) o in un eventuale Italexit (20 regioni) non è/sarebbe un problema?
Costituisce un problema negli Stati uniti e in Italia, in misura minore. La disparità economica fra Nord e Sud Italia ne è sintomo. Quello che gli USA e l'Italia hanno di diverso è che gli stati/regioni che compongono queste nazioni sono fra loro culturalmente, economicamente, politicamente prossimi e integrati. Il sentirsi parte di uno stesso popolo rende politicamente accettabile quello che non è ammissibile nell'unione monetaria europea: i trasferimenti fiscali, vera "panacea" per queste divergenze. Tutte le nazioni del mondo tamponano i loro disequilibri interni trasferendo ingenti risorse dalle aree più ricche a quelle più povere. Avviene in Italia, avviene negli Stati uniti, avviene in Germania. Nell'eurozona, diversamente da questi, i trasferimenti contano per percentuali irrisorie e finiscono non di certo a nostro favore.

La mobilità del lavoro è un altro aspetto che negli USA e in Italia fa da valvola di sfogo (problematica, perché a lungo andare acuisce il sottosviluppo delle aree più povere). I lavoratori disoccupati delle regioni economicamente depresse per necessità possono emigrare nelle regioni dove vi è più lavoro, abbassando i livelli di disoccupazione nelle terre di provenienza. Le differenze culturali, linguistiche, educative, sanitarie, previdenziali presenti fra le nazioni europee non permettono di avere lo stesso livello di mobilità del lavoro in Europa, peggiorando la situazione per i paesi più in difficoltà dell'unione monetaria.

L'ho messa giù in modo banale ma il tema è ampio e complesso. Leggere è il miglior modo in cui puoi trovare le risposte che cerchi, come in questo scritto di Bagnai, di cui ti suggerisco di leggere la versione integrale sul sito:

LItalia come unione monetaria

Nel 2006, uno studio della Banca d’Italia faceva osservare che 145 anni dopo l’unificazione monetaria dell’Italia (realizzata contemporaneamente all’unificazione politica), i livelli dei prezzi e i tassi d’inflazione nelle differenti regioni e province non convergevano ancora del tutto.[vii] Un fenomeno molto intrigante. Infatti, stando alla teoria economica ortodossa, a determinare il livello dei prezzi è la quantità di moneta circolante. Sarebbe dunque logico attendersi che a una moneta unica corrisponda un livello di prezzi, o almeno un’inflazione, unici. Questo studio mostra che in Italia non va affatto così. Uno studio successivo mostrò che la medesima cosa succedeva su scala europea, dove si assiste a una divisione dei paesi in tre «club d’inflazione»: i paesi del Nord (che convergono verso un’ inflazione bassa), l’Italia (con un’inflazione media), e i paesi del Sud (con un’inflazione relativamente elevata).[viii] L’esperienza delle regioni italiane suggerisce tuttavia che questo stato di fatto è destinato a persistere molto a lungo, il che significa che bisognerà attendere molto tempo perché tutti i paesi europei convergano verso il medesimo tasso di inflazione.

Da questi fatti statistici derivano due conseguenze significative.

In primo luogo, il fatto che una moneta unica conduca comunque a livelli di inflazione diversi rimette in discussione l’ingenua convinzione che sia la moneta che «causa» i livelli dei prezzi. Non si tratta di un’osservazione puramente teorica, al contrario: si tratta di una constatazione politica. L’inizio della terza globalizzazione (la globalizzazione «finanziaria») è stato caratterizzato da due importanti riforme istituzionali: la liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali e l’affermazione del principio dell’indipendenza dai governi della Banca centrale.[ix] Quest’ultimo si traduce nella proibizione rivolta alla Banca centrale di finanziare programmi di spesa pubblica attraverso l’emissione di moneta (incluso l’acquisto di titoli di debito pubblico al momento dell’emissione).

Questo divieto, giustificato all’epoca con la necessità di contenere l’inflazione legata all’impennata del prezzo del petrolio, ha avuto come conseguenza quella di obbligare gli Stati sovrani a rivolgersi ai mercati finanziari (e dunque in misura sempre crescente agli investitori internazionali) per soddisfare i loro bisogni di finanziamento. Si partiva dal principio che questo avrebbe sottoposto i governi, potenzialmente corrotti o miopi, alla disciplina dei mercati, visto che questi si sarebbero rifiutati di finanziare governi inefficienti.

Alla base di questo approccio, c’era l’idea che, poiché è la moneta che provoca l’inflazione, lasciando la gestione della massa monetaria nelle mani dei governi, questi ne avrebbero sicuramente approfittato a fini elettorali, provocando di conseguenza un aumento dell’inflazione.

Tuttavia, il fatto che da una parte una moneta unica possa coesistere con tassi di inflazione diversi e divergenti e dall’altra che la creazione massiccia di moneta da parte della BCE non sia riuscita a rianimare l’inflazione in Europa ci permette di vedere chiaramente che il legame tra massa monetaria e inflazione non è automatico. Questo spiega perché a una moneta unica non corrisponde un’inflazione unica. L’esperienza europea (e prima di questa l’esperienza italiana) ormai ci conferma che la dinamica dei prezzi è legata ad altri elementi strutturali di un sistema economico, in particolare al mercato del lavoro: è il tasso di disoccupazione, e non quello di creazione di moneta, che regola il tasso d’inflazione.[x] Questo d’altra parte spiega perché è nel sud d’Italia, dove la disoccupazione è maggiore, che l’inflazione è più bassa. Se però la moneta non causa l’inflazione, non è più giustificabile la decisione di sottrarne la gestione ai governi per garantire la stabilità dei prezzi. Se cade questa motivazione, bisogna dunque che ci domandiamo quale sia la giustificazione per proibire il finanziamento monetario del debito pubblico. In effetti, l’idea di sottomettere gli Stati alla disciplina dei mercati o, in altri termini, di privatizzare il più possibile il circuito del risparmio e dell’investimento, sembra un po’ superata, in un periodo in cui si assiste alla crisi mondiale di questi stessi mercati.

Il fatto che una moneta unica non garantisca la convergenza dei tassi d’inflazione ha un’altra conseguenza importante. Se infatti non si produce una convergenza, la moneta unica non può garantire che il rapporto tra i prezzi dei beni prodotti all’interno di un paese e quelli prodotti all’estero, quello che si definisce il tasso di cambio «reale», sia stabile. Nei paesi dove l’inflazione è più bassa, questo rapporto avrà la tendenza a diminuire. Si assisterà così a quella che si definisce una svalutazione del tasso di cambio reale, che corrisponde a un miglioramento della competitività, e comporta un surplus commerciale, al quale dovrà necessariamente corrispondere un deficit da qualche altra parte (nei paesi dove l’inflazione è più alta). Se il paese più forte avesse la sua propria valuta, questa tendenza sarebbe compensata da una rivalutazione del suo tasso di cambio: la moneta del paese forte diventerebbe anch’essa più forte, perché tutti la richiederebbero per acquistare i beni che produce.

Ma se la moneta è unica, il paese più forte non può rivalutare, il che vale a dire che non può riallineare la sua moneta alla sua produttività. Il peso dell’aggiustamento sarà allora sostenuto dai paesi che, per svariate ragioni (storiche, tecnologiche, sociali, culturali) in quel momento sono meno produttivi.

Negli anni 80 c’era la tendenza a interpretare questi fenomeni in un’ottica moralistica. Il deficit commerciale, si diceva, spronerà i deboli a correggersi. Un eccesso persistente di importazioni crea necessariamente un debito estero (perché bisogna pagare i beni che si acquistano all’estero) e una perdita di posti di lavoro (perché le importazioni non creano lavoro nelle regioni di destinazione, ma in quelle di provenienza). I paesi deboli si troveranno dunque di fronte a un dilemma: o diventare più produttivi (in modo da poter avere prezzi meno elevati) o perdere posti di lavoro, e sceglieranno per forza di cose la strada giusta, cioè fare le riforme necessarie a diventare più produttivi.

L’idea secondo cui, una volta buttati nella piscina della moneta unica, i paesi più deboli avrebbero volenti o nolenti imparato a nuotare era di per sé piuttosto autoritaria e sorda allo spirito di «solidarietà» e «unione sempre più stretta» declamato dal progetto europeo. In più, era smentita dall’esperienza italiana, e anche dalla più recente esperienza tedesca, che dimostrava che le regioni più deboli non riescono a recuperare facilmente il loro ritardo, quando sono schiacciate dal peso di una moneta troppo forte.[xi]

Infine, questa idea era un po’ ingenua, nel senso che è ingenuo illudersi che, in mancanza di una rivalutazione della valuta del paese forte, la riduzione dei prezzi nel paese debole possa sistemare le cose. Certo, in linea di principio per far scendere i prezzi basta essere più produttivi: se lo stesso lavoratore produce il doppio dei beni, i beni possono essere venduti a metà prezzo.  Ma un aumento della produttività non si ottiene dall’oggi al domani. Questo meccanismo non è compatibile con l’urgenza generata dalle crisi finanziarie.

Quando scoppia la crisi, è piuttosto la disoccupazione (o la chiusura delle aziende) che assicura la moderazione dei prezzi. Se però la disoccupazione persiste, i lavoratori si trasferiscono. Per gli economisti «ortodossi» è un bene: il tasso di disoccupazione scende, perché, dopo che i disoccupati se ne sono andati, non ci sono più disoccupati. Pangloss non saprebbe dirlo meglio!

Gli economisti keynesiani hanno invece il buon senso di rendersi conto che questi disoccupati sono anche clienti delle aziende locali: la loro uscita di scena provoca quindi una crisi di domanda, che fa sprofondare le regioni deboli nella trappola del sottosviluppo. Se calano gli acquirenti locali, bisogna andare a caccia di mercati all’estero, e per farlo è necessario tagliare ancora maggiormente il costo del lavoro, ovvero i redditi dei lavoratori, spingendo ulteriormente a calare la domanda interna, in una spirale senza fine.

Del resto, è proprio questo che spiega la mancata convergenza dei prezzi tra le regioni italiane. La svalutazione «interna» (vale a dire la contrazione dei salari) è un meccanismo molto più lento e inerziale della svalutazione «esterna» (abbassamento del tasso di cambio della valuta nazionale). Una volta che il processo di aggiustamento è avviato, è difficile interromperlo al momento giusto, soprattutto se per favorirlo si sono messe in atto riforme strutturali (come il «jobs act» italiano o la «loi travail» francese). Il rischio è quindi di ritrovarsi intrappolati in una spirale deflazionistica. È quello a cui abbiamo assistito per decenni in Italia ed è quello da cui ci mette in guardia oggi la BCE a livello europeo.

Ci sono studi che dimostrano che la rigidità del tasso di cambio si accompagna a una crescita più debole.[xii] Non c’è da stupirsene: quando il meccanismo di aggiustamento si basa sulla diminuzione dei salari, è necessario che aumenti la disoccupazione (perché in caso contrario i lavoratori non accetterebbero la riduzione dei loro redditi). Ma è il lavoro che crea il valore. Un sistema economico che si riequilibra attraverso la disoccupazione è dunque destinato a creare meno valore.

L’esperienza italiana ci mostra che in questo gioco nessuno è vincitore. Se le regioni del Nord per un certo periodo hanno potuto sfruttare quelle del Sud come fonte di manodopera a basso costo, e allo stesso tempo come mercato per i prodotti delle loro industrie, a lungo termine la divergenza tra le due parti del paese risulta un rischio per la crescita, che compromette la stabilità finanziaria e finisce col creare tensioni secessioniste (rappresentate in Italia dalla Lega Nord). Lo stesso scenario si presenta oggi su scala europea.

https://www.sinistrainrete.info/europa/8573-alberto-bagnai-unione-monetaria-un-punto-di-vista-italiano.html

 
Ultima modifica:
Che poi, mobilità del lavoro significa, praticamente, deportazione a spese del lavoratore. Sai che figata.

 
Avete sentito no? Gualtieri ha sdoganato la fine della CIG ed i licenziamenti.

Ricordate U3 al 30%?

 
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