Bir zamanlar Anadolu'da (C'era una volta in Anatolia) – Nuri Bilge Ceylan, 2011. Grande gestione dei tempi e dell'informazione. È evidente che Ceylan sia un maestro nel trarre il massimo dai propri dialoghi e dai propri interpreti, che gli ampi e frequenti spazi vuoti non privano di magnetismo ma anzi impreziosiscono ulteriormente. Stupenda, se pure artificiale, la fotografia e l'atmosfera notturna – personaggi e frammenti di paesaggio strappati all'oscurità, evidente ma non per questo inelegante parallelo visivo del brancolare nel buio delle indagini.
Repulsion – Roman Polanski, 1965. La sensazione è che senza questo film non avremmo mai avuto il Cronenberg, il Lynch, e chissà quanti altri grandi autori che conosciamo. Lo si potrebbe ridurre a un esercizio di stile, ma l'audacia registica e la perfezione esecutiva sono impressionanti.
Lupin III: Il castello di Cagliostro – Hayao Miyazaki, 1979. L'ultimo lungometraggio di Miyazaki che mi mancava è il suo primo. Nell'ultimo atto l'azione pura prende il sopravvento e la sceneggiatura può convincere o meno, ma l'introduzione e la costruzione delle ambientazioni tradiscono già il suo eccezionale talento.
High and low – Akira Kurosawa, 1963. Forse lo si potrebbe considerare il più grande thriller dai tempi di Lang – la serratissima e scrupolosissima sceneggiatura, la tensione dello sviluppo, la profusione di dettagli e l'assenza di edulcorazioni, lo pongono assolutamente come uno dei massimi esponenti del genere e in imbarazzante anticipo sui concorrenti. Non mi ha convinto del tutto la risoluzione finale, che rispetto alla ricchezza dello sviluppo ho trovato un po' tronca e di ambigua interpretazione.
Kış Uykusu (Il regno d'inverno) – Nuri Bilge Ceylan, 2014. La maestria di Ceylan nei dialoghi e i suoi sublimi paesaggi sono indiscutibili: nonostante la lunga durata, la pronunciata verbosità e i ritmi non certo frenetici è una visione che scorre con una facilità impressionante. La mancanza di un soggetto e di un'impronta stilistica forti, come era invece nel caso di C'era una volta in Anatolia, mi fa però temere che di qui a qualche mese ricorderò molto poco.
Ho poi rivisto Jeannette di Dumont. Se possibile ho amato ancora di più la prima parte, la cui messa in scena infantile e surreale non deve distogliere da una sceneggiatura in realtà tematicamente densissima. La seconda parte, con Jeanne adolescente, rimane purtroppo terribilmente fiacca, ridondante e poco ispirata. La soluzione è semplice e consiste nel godersi la prima parte come opera a sé stante, e lasciare da parte la seconda, noiosa metà.