L’ascesa di Skywalker è riuscito in un’impresa che non sembrava facile: rompere l’incanto. Scoperchiare il confortevole vaso di Pandora dell’Ingenuità. Svelare l’inganno. Gettare un’ombra lunga e oscura su 42 anni di I want to believe. C’è sempre stato un equilibrio nella Forza di Star Wars, quel collante onnipresente ma illocalizzabile che teneva insieme la fantascienza, il fantasy, la soap opera, la fiaba e che rendeva digeribile – meglio - etimologicamente incantevole “tutto”, anche le derive naif e le svolte da telenovela. Fa(ceva) tutto parte del gioco. E, di fondo, sembrava che la voglia di crederci fosse bilaterale, condivisa da/tra chi propone e chi fruisce. Un patto di co-responsabilità. Certo, non sfugge (e non è mai sfuggito) che “la magia di Star Wars” fosse frutto (anche e soprattutto) di un calcolo a scopo di lucro, che quell’ingenuità fiabesca fosse costruita in laboratorio, ma era sempre stata, più o meno, credibile, in nome di una sorta di virtuosa allucinazione collettiva alimentata da cuore e passione. Ecco, a me sembra che per la prima volta si siano messi da parte il cuore e la passione e sia rimasto solo il calcolo (sbagliato). Abrams e Terrio sembrano distratti da altro, più preoccupati, dopo Gli Ultimi Jedi, di riportare la saga su binari rassicuranti, infittire fino a renderli (quasi) organici i riferimenti al vecchio/nuovo canone e all’Universo Espanso e, insieme, trovare una chiusura degna de La Saga. Mica facile. Soprattutto se, insieme, si vuole anche girare uno Star Wars come si deve. Tutto, ne L’ascesa di Skywalker, accade molto velocemente – e arbitrariamente – senza che venga costruito nulla ma semplicemente citando, mostrando e accumulando, in una corsa scriteriata dettata dalla fretta di chiudere.